venerdì 2 settembre 2011

Come un racconto (terza parte)




Il lavoro sul polpaccio procede. Il viso Yanomami viene inciso per sempre nel polpaccio. Camminerò nella giungla per sempre. Sull'impiantito dell'azienda, per strada, su asfalti roventi o bagnati esalanti aloni come geyser, su strade sterrate, ovunque. Quello che mi interessa del tattoo è lo spirito che ti infonde. E c'è il fatto, poi, che io non ho la faccia da tatuato e non mi piace ostentarli. E' bello vedere l'espressione di meraviglia sul viso quando ti spogli, in spiaggia al mare o prima di fare sesso. Gli occhi di chi ti guarda si fumano una canna senza fumarsela. Rispetto agli altri due tatuaggi, rispettivamente un minotauro e un budda giovane, scolpiti sui deltoidi, questo, sul polpaccio, fa male, dopo un po'. Certo un dolore sopportabile che ti ricorda in senso buddistico il dolore di esistere. Con la mente vago, esco dal palazzo, scendo per le strade del quartiere, zona Cologno Monzese. Incontro un uomo che si muove con una stampella. Soffre molto nei movimenti. Ogni passo una smorfia di dolore. Più avanti incontro un vecchio. Il suo viso è scavato e triste, la vita è passata e non ha fatto quello che avrebbe voluto fare. Alla fine tutti dobbiamo morire. In pratica faccio lo stesso percorso iniziatico del Buddha. Con la mente. Ritorno in me. Tommy mi sta scolpendo il tattoo.
“Non mi piace fare tatuaggi a scopo commerciale. Non faccio tatuaggi a chiunque. Mi deve piacere la persona a cui tatuo qualcosa. Porterà tutta la vita addosso qualcosa di mio. Si stabilisce per sempre un rapporto personale”, dice.
“Questi tatuaggi non lo vedrai mai in giro a nessuno, sono frutti di disegni unici creati a posta per te o per chi tatuo”, dice ancora.
Renata sfoglia Tolstoj e assente col capo .
“Uh uh”, dico io.
Va avanti veloce, Tommy e in un'ora a mezza ha già definito il disegno e si accinge a passare alle sfumature in nero dei capelli.
Come un alchimista muove minuscoli alambicchi plastici attento a non contaminarli per poterli riusare, con aghi rigorosamente monouso. Ci versa dentro i colori. Pulisce il lavoro fatto con uno spruzzino di disinfettante. Si cambia i guanti sterili. Il sole comincia un po' a perdere di intensità, la sua luminosità prende ad opacizzarsi. Forse una nuvola, forse il pomeriggio inoltrato.
Renata di quando in quando dà una mano, ora a noi, ora a Pablo, per consolarlo. Non riesce proprio a capire che cosa stiamo facendo, poverino. E perchè non giochiamo con lui.
Ad un certo punto facciamo una pausa. Io vado in camera da letto e guardo allo specchio il frutto della prima stesura. L'immagine è nitida e ben scolpita, il nero dei tratti intenso. Fra un po' passeremo alle sfumature, alle rughe , ai particolari degli occhi, che Tommy vuole ieratici e magici, come si conviene ad un personaggio di impronta castanediana. Beviamo un bicchiere di Canonau, che fa sempre buon sangue. Guardiamo al pc qualche foto del recente viaggio che Tommy ha fatto in Sardegna, terra della metà del suo sangue, da parte di madre. La seconda metà , quella da parte di padre, è calabrese.
Belle foto con sfondi naturalistici di natura mediterranea, macchie di lentischi , ginestre , rocce preistoriche, fichi e fichi d'india. Assolutamente assente alcun tipo di fico milanese doc o d'importazione.
“Ero al bar con un mio amico d'infanzia. Lui adesso fa il finanziere. Io l'ho salutato. Lui mi ha guardato come se avesse visto un gremlins. Mi fa, sei tutto tatuato, ma che ti è successo? Scommetto che c'eri anche tu a Genova, al g8. Io gli dico, ma che cavolo c'entrano i tatuaggi col g8? Sei proprio un ignorante. Fra noi due chi è peggiorato, gli dico, nonostante le apparenze, sei tu. E me ne sono andato per i cavoli miei. Finchè la gente ragionerà per luoghi comuni non cambierà mai niente”, dice Tommy.
“Allora fai prima a dire che non cambierà mai niente...cambiano le facce e i colori, ma le architravi della società, vale a dire Economia, Chiesa, Politica , vengono mossi da pochi grandi vecchi che si assicurano che cambi tutto senza che cambi niente. Siamo il paese dei gattopardi”, dico.
“Siamo il paese delle zoccole”, dice Tommy. Touchè.
Riprendiamo il tattoo. Mi ristendo sul tavolo. Pablo ora siede ai piedi del tavolo, la lingua penzoloni a lavare il parchè, sembra essersi calmato ed aver accettato la sua condizione di animale essere innocuo che si contenta della vicinanza e della prossimità degli umani, senza contatto fisico alcuno. Renata riprende Tolstoj. Guarda con soddisfazione al lavoro svolto e dà qualche consiglio. La luce del sole comincia mano mano ad affievolirsi . Ora il dolore al polpaccio comincia a farsi intenso, come tante punture di spillo. Esercito la mia resistenza fachirica cercando di non darlo a vedere. E' il momento dei colori. I minuscoli alambicchi vengono intinti di continuo per il rosso, il blu e il giallo delle bacchette infilate in naso e labbra dell' indio. Il verde viene dato sulle foglie intorno alle orecchie, tutto in sequenza.

Al tramonto il lavoro volge al termine, sono trascorse circa sei ore ed il risultato è francamente incoraggiante. La faccia dello Yanomami è ora immortalata per sempre sul mio polpaccio. Me lo porterò con me fino alla tomba e porterò un pezzo d'anima di chi lo ha disegnato con me . Renata nel frattempo va di là in camera da letto e naviga per un po' in internet. Ecco, adesso, sono al culmine del dolore. La schiena mi fa male, per essere stato disteso a lungo prono e le punture di spillo si fanno sentire lancinanti. Non c'è più endorfina che tenga.
Tommy dà gli ultimi ritocchi e mi consente di alzarmi in piedi. Guardo il risultato allo specchio nella camera da letto, aprendo le ante dell'armadio. Lo Yanomami sembra animato di vita propria, i muscoli del polpaccio agitandosi per il movimento del camminare dà alla faccia una plasticità sconcertante. La faccia parla, sembra volermi parlare, sembra volermi dire delle cose . Forse mi maledice per essersi trovata di colpo sul polpaccio di un uomo occidentale che vive nella modernità che è la lapide della vita primigenia. Che altro non è se non la vita vera tout court. Mi siedo per rilassarmi un poco. Mi sento come in preda ad una strana febbre. Bevo un bicchiere di Canonau per riprendermi. Renata comincia a cucinare una pasta con sugo di melanzane. C'è una catartica armonia nell'aria, dopo una sofferenza che non assomiglia per nulla a quella della vita quotidiana. Mi sembra di essere stato altrove. Nella giungla amazzone , in un tempio buddhista zen o a Badu'e carros, in un carcere speciale sardo, dove detenuti politici di una rivoluzione che non c'è mai stata meditano su una sconfitta nata dall'aver confuso il popolo con la gente .
Tommy, con calma, comincia a mettere in ordine le sue cose, in mezzo al tepore dei tegami con sugo di melanzane e pasta a bollire .
Dopo una ventina di minuti di assestamento, Renata si assenta per andare in bagno e Tommy, lì, seduto, di fronte a me prende a parlarmi.
“Quando siamo stati in Sardegna in vacanza, mi è successo un fatto che definirei magico. Lo sai io sono un razionale, non credo molto a queste cose, ma si è verificato un fenomeno sconcertante. Mentre ero a letto una notte, ho sentito in alto, davanti a me disteso, un intenso profumo di tabacco e di sudore che mi ricordava mio zio. Una specie di nuvoletta. Non mi sono spaventato. Ho cercato di capire meglio cosa stesse succedendo, se per caso stessi sognando. Ho auscultato i capelli di mia moglie che dormiva a fianco. Ma non proveniva da quei capelli, quella emanazione. Mi sono rivoltato e quella cosa, dio, era ancora sopra di me. Un profumo intenso di tabacco e di mio zio. Sai io quando vado in Sardegna vado sempre a fargli visita al cimitero. Ma questa volta ancora non c'ero stato. La cosa è proseguita per parecchie ore. Non ho pensato a nulla e non ho avuto paura. Non l'ho detto a nessuno. La mattina dopo sono andato al cimitero, sulla tomba di mio zio. Gli ho parlato . Mi sono scusato con lui per non essere andato a trovarlo prima . Poi il fenomeno non si è più ripetuto. Ecco lui voleva solo questa gentilezza, che lo andassi a trovare”.
“E che idea ti sei fatto?”, gli chiedo.
“Niente, nessuna idea. Forse noi non moriamo veramente, cambiamo solo stato, diventiamo, ghiaccio, acqua, vento, ma la nostra energia resta per sempre. Per questo quelli che fanno i figli al solo scopo della continuazione biologica di se stessi, sono una manica di egoisti. Un figlio è una vita a sé stante, non un tuo clone. E tutti noi siamo energia inestinguibile. Esiste tuttavia un mondo in cui la morte muore veramente. Ma non sono sicuro che sia proprio un male, questo”.
“Già, può essere l'estinzione perpetua del dolore, un concetto buddista”.
“L'hai detto, fratello”.
“Nel disegno dello stregone, per il tattoo, ti sei ispirato a questa cosa?”.
“Un po' si, lo devo ammettere. La faccia sembra quella di un uomo oltre ogni tempo”.
Nel frattempo Renata è rientrata. La pasta è pronta e serve questo piatto mediterraneo, che Tommy non perde tempo a sottolineare, vegetariano, in tavola. E'molto buona e il Canonau la accompagna degnamente. Renata è tutta soddisfatta del proprio risultato e del gradimento machista di noi mediterranei seduti piantati in tavola come gli uomini di una vola del sud cui le donne non concedevano alcuna collaborazione.
Poi Tommy si alza, con mia viva sorpresa. Ma è per prendere una prelibatezza da farmi assaggiare, dice. Una crema di mirto di Chia. Una vera rarità, a quanto pare. Ne bevo un bicchiere ed ha un sapore paradisiaco. Glielo faccio notare e i suoi occhi gli si illuminano. Altro che Bayles, quella merda la lasciamo bere ai fichetti impregnati di pubblicità ed happy hour.
Ce ne stiamo seduti per qualche tempo, in tavola, a parlare del più e del meno. E più è trascorso il tempo e meno abbiamo parlato di lavoro. L'armonia ha fatto il suo ingresso nelle nostre vite della giornata. Ma è già tardi ed io devo andare. Sono venuto con i mezzi ed è già quasi mezzanotte . Ma c'è tempo per un mirto, puro questa volta, che mi lascia sul palato il sapore della macchia mediterranea, delle scogliere dove si infrangono mari gravidi di ricci, del vento che stormisce le fronde della macchia mediterranea e del lontano verso di un gheppio che ha già scovato la sua arvicola di turno.
Dopo un po' usciamo tutti e quattro, Pablo compreso. Eccoci qui, nel buio hinterlandiano inoltrarci con la stanca a sacaracchiante Ka per le strade della periferia milanese, verso Sesto Marelli. Ci salutiamo affettuosamente. Tommy mi dà le sue ultime raccomandazioni sull'uso del Bepanthenol, una crema lenitiva normalmente usata per i rossori naticali neonatali. Scendo dalla macchina e con le mie bermuda celesti, mi addentro all'interno della metro, con la caviglia fasciata dal domopak, più per tema che lo yanomami urli per lo spavento dei mostri che andrò ad incontrare, che per proteggere il polpaccio.

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