mercoledì 28 settembre 2011

bossa nova ( tre)


A ruota libera, lascio vagare i miei pensieri e li mescolo ai ricordi della giornata o del passato, mentre digito sulla tastiera del computer come un musicista jazz, mettendo insieme le parole il significante il significato e il suono, che insieme mi daranno la soddisfazione di dire esattamente cosa voglio dire e nel modo in cui lo voglio dire e se alla fine rileggendo provo una lieve soddisfazione sicuramente avrò scritto capolavori. Talmente sono severo con me stesso. Naturalmente c'è la possibilità elevata che alla maggior parte degli esseri umani non piaccia ciò che scrivo e come lo scrivo. Beh, se avessi dovuto scrivere un libro pensando a quelli che avrebbero dovuto leggerlo, non avrei scritto un solo rigo. E questo dovrebbe darvi abbastanza la misura di quello che penso dell'umanità. Un lettore dovrebbe leggere un autore lasciandosi sollazzare unicamente dalla grazia di quello che scrive e di come lo scrive, infischiandosene altamente se è gay, o gli piacciono le trans o va a messa tutte le domeniche o se tradisce la moglie italiana con una prostituta albanese conosciuta di notte sui viali di una qualsiasi città d'Europa. Un lettore dovrebbe leggere e immaginare i personaggi, i luoghi e le circostanze, secondo una sua personale visione, secondo il cinemascope del suo cervello, e sicuramente se si confrontasse con altri lettori verrebbero fuori visioni diverse o la stessa visione, e in quel caso lo scrittore dovrebbe preoccuparsi perchè sarebbe un Dio e nessuno vorrebbe essere Dio ed essere intervistato dalla Tv. Far sognare personaggi e luoghi e situazioni con le stesse caratteristiche morfologiche a tutti, ecco un tipo di scrittore che non vorrei essere. Questo sarebbe un tipo di scrittore che si ispira alla cultura iconografica giudaico-cristiana, mentre io scaglio le parole e le immagini, le sparpaglio sulla pagina e lascio che prendano forma da sole e magari ripeto immagini e situazioni, perchè lascio la logica alle fredda logiche dei numeri e degli ingegneri. La matematica non potrà mai dare una forma ai sentimenti, all'amore, al sesso, alla violenza, alla guerra, in altre parole alla vita. Ecco perchè io sono un tipo di scrittore coranico, nella forma, lancio pensieri e versi poetici e li musico, come stessi ricevendo una continua rivelazione notturna e Allah in persona mi stesse ispirando. E come quella cultura sono interessato alla guerra, alla lotta, alla battaglia, proprio perchè ritengo che qualsiasi essere umano debba lottare per ciò che ritiene giusto con ogni mezzo necessario. Ho rispetto per i Talebani e per il loro radicalismo primitivo, per la loro idea di ritorno agli antichi ideali e per quella quella loro encomiabile fede nel proprio Dio, ch'essi arrivano ad amare più di se stessi come nessun cristiano potrà mai fare. Vivono nei deserti, a cavallo di cammelli, col Kalasnikov al collo, con il cielo stellato che dà la direzione e qualche dattero consumato in fretta per dissetarsi, vestiti con le loro vesti lunghe e i turbanti e l'occhio vigile sul territorio, su quella sabbia insignificante che per loro è la loro terra, suolo sacro, da difendere da chiunque voglia imporre regole diverse dalle proprie. Quei giovani che percorrono i deserti sì, che stanno vivendo in senso pieno la propria vita, proprio perchè non sanno per quanto tempo potranno conservarla, quei ragazzi meritano rispetto e ammirazione. Li preferisco al più brillante studente bocconiano in corso col massimo dei voti, al più brillante studente della Cattolica che vince borse di studio a ripetizione. Che vita andranno mai a fare costoro, solo una proiezione dei desideri piccolo-borghesi delle proprie famiglie in ossequio dei quali andranno a guadagnare stipendi alti, licenziare operai e farsi venire la rinite cronica da cocaina tutti i sabati sera, eppoi si sposeranno e tradiranno le mogli ripetutamente , pur avendo figli che saranno l'orgoglio dei nonni e l'invidia delle altre famiglie. Sentire il sudore che si ghiaccia addosso, mentre sei nascosto dietro un muretto a secco, col fucile pronto, prepararsi ad un assalto, difendere il proprio villaggio all'arma bianca contro elicotteri che scagliano missili all'uranio impoverito, genera un futuro di grandezza in chi sopravvive. Ciascuno di questi ragazzi sopravvissuto potrebbe comandare un popolo. Ecco cosa manca alla nostra gioventù. E' troppo tempo che non facciamo una guerra vera. Siamo il paese del dolce far niente elevato all'ennesima potenza fino alla filosofia dell'inerzia. Nessuno vuol più lottare per niente, nessun ama qualcosa più di se stesso, tutti amano ossessivamente solo e soltanto se stessi. Anche se attraverso le cose. Lo spirito del consumismo.
Provo una sincera ammirazione per chi fa la guerra con i mezzi tradizionali, per chi non si arrende allo strapotere del nemico, è un grande insegnamento e una metafora della lotta per la vita. Io sono troppo avanti con gli anni e stanco e disilluso per combattere. Io al massimo posso documentare. La morte di questa civiltà, che come tutte le civiltà sarà spazzata via dai nuovi barbari, siano essi talebani, birmani , sikh o mussulmani filippini o dagli Hezbollah perchè mai l'idea che il burqua sia più illiberale dei megaposters del didietro di “Roberta”potra convincermi che la nostra civiltà è superiore alle altre. Basta questa convinzione a pormi automaticamente nella posizione di chi non si sente di combattere per una civiltà a cui sente di non appartenere. Cosa dovrei pensare di un paese come il nostro che denigra il risorgimento e la guerra partigiana che sono gli unici due momenti in cui chi combatteva lo faceva dalla parte giusta e in cui l'inferiorità della forza militare fu compensata dai più alti ideali che esseri umani possano mai avere: dal cuore e dalla passione, che altro non sono che componenti base, in natura, dell'amore. Questi partigiani sbagliati, i talebani, le tribù berbere combattenti che difendono i deserti, i mussulmani delle filippine, i guerriglieri ceceni, persino i guerriglieri marxisti colombiani dispersi nelle giungle colombiane, i senderisti, e i maoisti malaysiani, i guerriglieri palestinesi, rappresentano il futuro. Rappresentano il cambiamento. Correggeranno il tiro, miglioreranno i propri errori. E nessuno ci assicura che non saranno meglio di chi ha detenuto il potere per anni narcotizzando i popoli con la coca cola e il MacDonald. L'impero sta cadendo in pezzi e i barbari spingono alle frontiere. Come l'impero Romano, la storia si ripete. E a chi dice che queste forze nuove portano indietro la ruota della civiltà opprimendo le donne, dico che le donne stesse provenienti dal ventre di queste culture si selezioneranno attraverso la lotta interna e ciascuna di loro, una volta emancipatesi potrà comandare stati, dirigere uomini, com'è vero che chiunque vorrebbe avere un figlio da una combattente cecena, perchè sarebbe il raffinato prodotto di una selezione pluricombattente e avrebbe in nuce i crismi dell'uomo nuovo di cui parlava Trotsky, di quell'uomo cioè che abbandona la sua condizione media per elevarsi dal rango di australopiteco moderno.

martedì 20 settembre 2011

Come una bossa nova (due)


Da tempo superato quel narcisismo un po' infantile non che snob ad libitum dello scrittore che non legge altri scrittori, ho preso a noleggiare libri dalla biblioteca in genere la mattina prima di andare al lavoro. Un paio in genere e me ne infilo uno che più tardi terrà compagnia ad una copia ben piegata di Repubblica nel tascone laterale della divisa prima di andare al lavoro, in queste mattine umide di ottobre, quando tutti noi coscritti del lavoro e meno male, dovrei dire, visti i tempi che corrono, ci svegliamo con le ossa rotte e i muscoli rattrappiti e ci scaraventiamo in strada mezzi addormentati con gli occhiali da sole come minatori usciti dalle miniere dopo quaranta giorni di prigionia, non più abituati alla luce del sole. Poi in macchina lungo il naviglio, il riscaldamento acceso a palla, nel traffico mortifero delle nove di mattina, con radiodeejay a gracchiare da una vecchia radio-stereo e i vari personaggi del mondo intellettuale postmoderno che rispondono alla improbabile e tautologica definizione di deejay pronti lì a pontificare ed a diffondere a livello elettromagnetico il loro verbo ormai molto più ascoltato di quello dei politici e ci vuole poco, visti i tempi. Per non parlare degli intellettuali, grandi assenti dell'epoca, tutti venduti, persi nell'utilizzare le loro abilità per sopravvivere vendendosi al miglior offerente pur di non doversi ridurre a lavorare, manualmente o facendo altro, attività nobili che sembrerebbe quasi arrecar loro un'onta, e che insegnerebbero invece il valore del denaro e della fatica. Ma i novelli prostituti intellettuali, vere puttane postmoderne del pensiero, passano le loro giornate scrivendo libri insulsi per stampare i quali si arrecano danni ambientali incalcolabili all'Amazzonia, frequentano salotti buoni, girano negli studi televisivi. Ma dove sono finiti i Tolstoj che visitavano detenuti in confino, dove sono finiti i Dostojevskij che si rovinavano a giocare alla roulette, o che stupravano minorenni procurandosi un infinito senso di colpa carburante inestimabile per nuove creazioni del pensiero, dove sono finiti i Celine che visitano l'Unione Sovietica e dicono la loro imperturbabili e anarchicamente indipendenti, dove sono finiti i Trotsky che avevano una visione del mondo completa ed enciclopedica... e i Pasolini, gli Sciascia, i Calvino, ammesso che anche loro fossero immuni da piaggerie o accondiscendenze verso datori di lavoro editori e comunque imprenditori, capitalisti che devono far quadrare i conti? Gli uomini di pensiero oggi sono dispersi nelle segrete del pianeta, nelle fabbriche, in oscuri uffici impiegatizi poco numerosi o male illuminati, in Centri Commerciali, in officine meccaniche, in mezzo alle prostitute che vendono il corpo per pochi spiccioli o per tanti, non importa, fra oscuri impiegati di banca o operatori di call center. Sono sicuro che un marocchino che ha appena fatto il pieno ad un cliente di una pompa di benzina, ha pensato qualcosa di geniale, ha partorito nei suoi pensieri un verso immortale , ha avuto un'idea brillante e sta pensando che diminuire il prezzo della benzina aumenta l'inquinamento ambientale e che un cammello che si nutre sporadicamente di datteri è una nave del deserto e resiste a chilometri e chilometri sotto il sole come nessun mezzo meccanico e che nelle notti artiche del deserto guardando la luna e le stelle e congiungendone con lo sguardo i punti che brillano si possono vedere figure umane e facce e profili e che la volpe del deserto avverte un topo a dieci chilometri e che se l'uomo imparasse a sviluppare questo potere potremmo fare a meno dei radar e usare quelle risorse per produrre vaccini contro aids ed epatite c, o ebola o si potrebbe finalmente lottare seriamente contro il tumore senza dover chiedere soldi a sponsor più o meno occulti che li generano. Ma naturalmente nessuno verrà mai a sapere che ci sono uomini che pensano cose geniali, perchè il genio lo stabilisce il mercato, come pure chi è intellettuale e chi no, come pure se un quadro è un quadro oppure due pennellate buttate alla rinfusa su una tela qualsiasi.
Accelero nel traffico e supero un paio di semafori, dall'altra parte del naviglio qualche coraggioso masochista della corsa si sta allenando sotto un sole come filtrato dal velo di una sposa over sessantacinque e io do un'occhiata ai titoli de”La Repubblica” poggiata sul sedile accanto...e mentre per un momento osservo il giornale ancora compatto e intonso mi vengono in mente tanti ricordi...
Repubblica entrava , assieme all'Unità, da sempre a casa mia. Per cui per me leggere il giornale era come per un brasiliano fare sesso: fisiologico. Una delle cose che fa durante il giorno, senza distinguere performances, tempi, durate o altre amenità statistiche, la scienza più noiosa della terra i cui interpreti c'è da giurarci sono tipi che userebbero il goniometro prima di copulare, una delle tante cose o poche cose o niente cose, o fare nulla, aspetto che noi occidentali occipitali senza soluzione di continuità dovremmo ammirare e apprendere, presi come siamo ad ucciderci seppellendoci nella merce coperta inutile che ci soffocherà e ammazzerà la nostra creatività. Leggere per me era naturale, come respirare. Respiravo notizie, informazioni ma soprattutto parole che , dopo un po' che mi forgiai nell'abitudine a leggere, provai ad immaginare montate nella pagina in modo diverso, in una speciale sequenza che oltre al significato avrebbero “suonato” bene, come un ensemble ben assortita che trasmette emozione, sdegno , provocazione, visoni del mondo. E poi mi portavo con me durante il giorno queste parole che mi tenevano compagnia e che in pochi attimi davano un senso a tutto ciò che osservavo, dapprima emulando , ma poi, dopo un po' , elaborando. La copia gracchiante de La Repubblica, restava per casa tutto il giorno, emanando quell'odore inebriante di petrolio e di inchiostro, con quel formato a portata di mano, a portata di lettura, che puoi domare con tranquillità anche in una giornata di tramontana , mentre sei seduto a aspettare l'autobus e c'è un sole lieve e capolinante, in mezzo a nuvole solide come icebergs naviganti nel cielo oceanico aeriforme. E in varie fasi della giornata tutti noi in famiglia la leggevamo, a volte scorporandone le pagine e provandone fastidio per la disscrazione dell'intonsatura del formato , fino a quando l'atto stesso del disfare non schiudeva le porte per l'accettazione che un'idea una volta letta cambia cittadinanza e forma e bellezza o comicità e persino drammaticità, se è vero come è vero che la risata è un pianto rovesciato e poco a poco quella pagina sacra che trasmetteva pensiero non si trasformava nell'idea stessa di cui la cultura deve essere costituita e cioè di qualcosa che devi usare una volta che ne hai capito il messaggio e ti sei accorto che ti ha insegnato a non farti usare da lei. Ecco che cosa significava per tutti noi in famiglia una copia de La Repubblica in casa, una volta che la disfacevamo e ognuno di noi se ne portava in pezzo chi sul tavolo della cucina, chi sul trono postprandiale , chi in giro mentre era in fila in posta in attesa di pagare una bolletta, chi se ne stava ancora un po' a letto senza incombenze immediate. E ognuno di noi, al termine si scambiava quelle pagine e insieme ad esse pareri. Cose così, semplici, che in qualunque famiglia normale di un paese normale dovrebbero avvenire. E invece ero e sono sempre stato uno dei pochi a spendere pochi spiccioli per un giornale, proprio perchè amo la lettura , che mi dà il tempo di elaborare al contrario della televisione, con i suoi tempi i suoi palinsesti le cordate i presenzialismi e persino le labbra e gli zigomi rifatti, per cui alla fine in mezzo alla sarabanda di informazioni di mortammazzati, sgozzati, stupri e violenze inenarrabili uno alla fine comincia a concentrarsi su quelle labbra , su quegli zigomi e poi sul decoltè e comincia a distrarsi, così, per una normale difesa psicologica che ad un certo punto si impossessa di te come per i marines farsi le canne in Vietnam.
Tutte le mattine entro in azienda con la divisa coperta appena da un gilet imbottito dover ripongo i miei occhiali da sole necessario orpello da vampiro involontario e dopo aver strisciato il badge nell'apposita macchinetta entro negli uffici, con una copia de La Repubblica piegata in quattro e infilata nel tascone dei pantaloni della mia divisa con la scritta ben in vista come una bandiera, come una spilla dell'armata rossa rubata ad un generale russo quando era ancora in servizio, come la maglietta di un fan che è stato al concerto del suo cantante preferito, e dopo un po' faccio il mio ingresso in mensa per bere uno di quegli insulsi caffè , osservato da tutti con quel misto di apatia e noia e fastidio, osservato con sospetto, come qualcuno di cui diffidare, perchè sa usare le parole e questo lo mette a capo di una sorta di congrega immaginaria di complottardi che magari riusciranno a farsi dare le ferie quando vogliono loro, farsi dare un aumento, tenere a distanza i dirigenti o essi stessi, temendo di non essere all'altezza. Spesso entrando in azienda col giornale nel tascone mi sono sentito come un palestinese in avvicinamento ad un check point israeliano, come una potenziale minaccia , come qualcuno di cui non fidarsi. E ci chiediamo perchè nel nostro paese abbia successo uno che raccomanda di non leggere i giornali che non sapeva che il padre dei fratelli Cervi fosse morto e che inneggia a Romolo e Remolo a cui abitualmente qualche ben pagato intellettuale di cui ho già detto fa da gost writer?
E' alla lettura invece che devo se ho imparato a diffidare delle parole ed il significato di frasi come “quando lo stato comincia a farsi chiamare Patria si prepara alla guerra” ed è grazie alla lettura dei giornali se sono diventato abile nello smascherare il linguaggio criptato della politica, di chi ti veste una speculazione edilizia con un bel “valorizzazione del territorio” o di chi ti vende le Centrali Nucleari con tutto il loro potenziale di morte ad orologeria come “avamposto del progresso senza il quale non si potranno fare i conti col futuro”.
Tutte le mattine l'edicolante da cui compro la Repubblica mi guarda male, perchè lui odia gli stranieri che ritiene responsabili di tutti i suoi guai personali comprese le corna che s'è beccato dalla moglie colta in flagrante con un senegalese parecchio prestante e pensa che io inquanto lettore di
“quel giornale” sono automaticamente uno spaccafrontiere che accoglierebbe chiunque varcasse il confine vestito di stracci fingendosi profugo in realtà infiltrato “comunista”, che ci sta bene un po' dovunque, così come “finocchio” o meglio ancora ” ebreo”, inaugurando quello che chiamerò “il paradosso dell'edicolante razzista” e cioè di colui che vende e diffonde le stesse idee che alla fine lo affonderanno, se è vero come è vero, che i giornali più venduti hanno delle opinioni che mettono in dubbio le certezze del darwiniano sociale medio. “Il paradosso dell'edicolante razzista” è alla base della nostra cosiddetta civiltà: operai fabbricano armi che uccideranno operai di altri paesi, lavorano a salari più bassi facendo licenziare operai di altri paesi , giornalisti scrivono articoli a favore di governi che pretendono di abolire i sindacati dei giornalisti, scrittori scrivono romanzi sulla base di idee degli editori, politici di sinistra dicono cose di destra per prendere voti, politici di destra ne dicono ancora più di destra per prenderne di più di quelli di sinistra che dicono cose di destra, e via dicendo, un po' come la pensava il vecchio Lenin quando diceva che il capitalismo finirà per vendere la stessa corda alla quale sarà impiccato. Milioni di persone, per egoismo, opportunismo, persino per paura o inedia, forniscono i propri servizi ai produttori di cappi ai quali resteranno impiccati e se anche non dovesse accadere per me non sono altro che dei traditori della razza umana, dovrebbero dimettersi ,oltre che dalle attività che svolgono , persino dal genere umano. Pensiero radicale, miglior pensiero, base di partenza indispensabile per cercare il giusto compromesso ed arrivare ad un punto di equilibrio accettabile per la maggior parte delle persone. Mi hanno sempre definito un estremista, un ultrà, un mullah della sinistra pauperista, un nostalgico del socialismo realizzato, in nome di una democrazia che si è dimostrata più utopistica di qualsiasi ideologia dal momento che non ha affatto diminuito le ingiustizie sociali, ma anzi, in molti casi le ha acuite, illudendo le masse con il panem et circenses di Beautiful , Mulino Bianco e la Domenica Sportiva.




martedì 6 settembre 2011

Come una bossa nova (Uno)


E' notte, in cuffia Radio Bossa Nova FM mi fa viaggiare tra le spiaggia brasiliane, sotto l'ombra delle palme, col viso accarezzato dalla brezza, in bocca il sapore asprigno della caipirinha, in lontananza fanciulle mulatte dai corpi sinuosi e ofidici ancheggiano lanciando sguardi in tralice che emanano riflessi come di marlyn che tentino di slamarsi da ami di pingui pescatori seduti su grandi yacht d'altura, ancestrali urubu neri si stagliano sull'orizzonte ingentilito da una nebbiolina azzurrina come dopo un'esplosione, odore di olio di cocco, posso vedere i grattacieli del litorale di una qualsiasi città brasiliana rimpicciolirsi mentre li guardo attraverso il microscopio di un bicchiere di birra Skol giallo paglierino sollevata da un uomo panciuto che sembra godersi ogni momento di questo starsene all'aria prevespertina del pomeriggio caraibico, rumori di sottofondo di mototaxi nordestini, ecco mi sembra di starmene seduto a pensare su una spiaggia nordestina, del Brasile più autentico, primitivo, atlantico e marino, mentre aquiloni solcano l'aria innalzandosi sull'oceano come caricature di aerei destinati a trasvolare l'atlantico, mentre sotto una baracca all'ombra ragazze dal somatico indefinibile , androgino, ma non per questo meno misterioso e affascinante, danzano il samba del pomeriggio su questa spiaggia dove il tempo sembra essersi fermato, dove non conta più nulla , a parte l'attesa e lo scorrere dei minuti che non terminano mai e gli sguardi che parlano standosene in silenzio e i movimenti di bacini, occhi, mani che fumano sigarette e spinelli alla buona , un sound system lancia tracce di forrò che fanno danzare tutti compresi quelli che siedono e si danno da fare a scarnificare pesci pargo appena arrostiti o polli arrostiti o arrosti misti cotti con la dovizia di una cerimonia del tè giapponese, ma con più calma , se possibile...perfetta cornice che permette e favorisce lo sviluppo di mille amori o di un amore, non importa, dell'amore, comunque, perchè l'amore non è fatto solo di corpi scolpiti, ambrati dal sole caraibico, non è solo fatto di dentature perfette, di sguardi sfuggenti, di occhi che sorridono e di anche che danzano l'hula hop del desiderio solo e semplicemente camminando, ma l'amore è anche e soprattutto atmosfera, energia che si assorbe dall'aria, nel clima, è energia combinatasi atomicamente dalla somma alchemica dei ventuno grammi di quelli di noi che non ci sono più e se ne sono liberati, per lasciarla libera vagare nell'aria, senza che nessun Dio possa mai avere l'ardire di riuscire a irregimentare, che se dovessi darle una forma, a questa energia, sarebbe quella delle facce delle ragazze che danzano il forrò sotto l'ombra di una baracca, facce indie, facce nere, facce mulatte, facce bianche teutoniche, rosse belghe, italiche venete , scure mediterranee , facce africa, facce pellerossa, facce inuit, facce nippo, facce ciaina, che tutte insieme compongono un'unica grande faccia verdeoro che è il continente brasiliano.
E' notte e fuori è buio e c'è silenzio , nella periferia ovest di Milano, dove mi sono ritirato a vivere da oltre vent'anni e cerco di stare in equilibrio, con i miei sentimenti, con le mie emozioni, con le mie ragioni, con i miei valori, ma la vita è il vento che mi colpisce in viso e in faccia, come una tramontana gelida, mentre percorro un filo d'acciaio teso fra due grattacieli e sotto il vuoto più assoluto fatto di persone che mi guardano in attesa dell'evento tragico che dia un senso alla loro esistenza, per differenza, per sopravvivenza, cinque minuti di calda consolazione perchè è toccato a un altro e non a loro, cadere. Ma è giunto il momento per me di prendere il coraggio a due mani e di andare avanti sulla corda d'acciaio tesa fra i grattacieli di questa città stato. Senza aver paura di cadere, anzi forse avendo paura di cadere, perchè la paura genera attenzione, è vigile, mette concentrazione, mentre il coraggio uccide. Più che il coraggio l'eccessivo coraggio. I giorni scorrono inesorabili, i capelli si ingrigiscono, la pinguedine mi assale con l'autunno foriero di appetiti irrefrenabili antistress, nonostante il jogging quotidiano, almeno 45 minuti. Tutti i giorni dopo il lavoro, quasi in stato di trance, appena arrivato a casa dal lavoro, indosso la tuta e qualche vecchio maglione in disuso e senza troppo senso estetico modello runner milanese new generation, inforco delle scarpe da jogging neanche tanto tecnologiche e mi scaravento in strada. Via, nell'autunno incipiente, primi di ottobre, verso le sette e mezza di sera, ed è già buio, vado verso la mia quotidiana meditazione in movimento. Esco di casa a Corsico, cielo nero lavagna, intorno palazzoni di dieci e più piani popolati ormai in prevalenza da puttane nigeriane, matrone russe pettorute modello matrioska bodybuilder, esili polacchi emo, massaggiatrici cinesi, i soliti magrebini macilenti marlboro perennemente incollata al labbro secondo i classici dettami coranici del fumo male minore rispetto all'alcohol, reduci dal recente ramadan, e pochi stanchi calabresi e napoletani che resistono senza reali alternative auspicabili, mi inoltro nei vicoli dietro casa, sotto gli sguardi costernati di fastidio che dalle finestre e dalle villette intorno , nella strada che costeggia le finestre di casa, mi monitorano durante il passaggio, mentre cani ringhiano e abbaiano dietro le inferriate diventati cloni dei proprietari e delle loro idiosincrasie per il diverso da sé, nella fattispecie il jogger che nell'incipiente serata postlavorativa come un ninja forzato, in tutta scura e scarpe ginniche , prova a battere il tempo che passa , lo scazzo divanesco dello starsene in tv come ebeti o tossici in scimmia pura a lasciare che quella scatola emanante onde elettromagnetiche pensi per te, come si permette questo strano individuo, che a quasi cinquant'anni, e non ha più l'età, di andarsene a correre a quest'ora, mentre tutti noi guardiamo il tg di Italia Uno e ci inebriamo nell'idiozia più totale dello slogan gridato che pubblicizza la medesima rete, mentre si parla volentieri delle tette di Belen, delle pseudofrocerie di Corona, e quasi mai o per niente dei morti ammazzati sul lavoro in ognidove in Italia, negli anni zero che sarebbero dovuti essere gli anni della sicurezza assoluta e della tecnologia che affranca l'uomo dalla fatica del lavoro...penso tutte queste cose mentre i cani abbaiano rabbiosi dietro le inferriate facendomi venire voglia di diventare il primo serial killer di cani a guardia di villette hinterlandiane milanesi. Prendo a sinistra e sento lo smog delle auto che mi pizzica il naso e la gola, mentre salgo e scendo dal marciapiedi, illudendomi che questo andare su e giù per i marciapiedi, schivare buche, saltare gobbe sull'asfalto semiporoso del paese , mi alleni tutti i distretti muscolari, come il primo bianco che corre come un keniano nella valle del Rift, dove decine di ragazzi neri africani, memori della corse di chilometri a piedi, per andare a scuola, con ogni tempo, hanno deciso di prendersi un riscatto sulla vita e sul mondo, continuando a fare quell'esercizio che li portava sui banchi davanti ad una lavagna raffazzonata e a gessetti mossi nervosamente da maestre dentibianchi improvvisate dell'ultim'ora ma non meno importanti e forse più pregnanti di professori liceali di un occidente evoluto ricco e povero di idee, primo bianco che corre a prescindere da un allenamento per qualsiasi gara, ma solo per la gara della vita, della sopravvivenza, la gara del mantenersi in salute e sani di mente, combattere il colesterolo e i grassi nel sangue del corpo e il colesterolo dell'anima, ancora più pericoloso. E mentre mi infilo su un viottolo sterrato che si apre in mezzo a pioppi che fanno il presentat'arm a canali irrigui limpidi che ospitano trote guizzanti, incontro quasi sempre dei tossici senza età, uno piuttosto robusto in canotta estiva, persino in inverno, e pantaloni mimetici, con uno stanco pittbull con un'espressione senza espressione, con occhi languidi e cerulei, che pare in scimmia come il proprietario, proiezione canina del proprietario, il quale mi osserva sempre caracollare con la mia teoria sonora di passi strascicati sul brecciolino del viottolo in questione, ma io nel ricambiarlo col viso capisco che è lo sguardo truce del cobra negli ultimi attimi prima che la mangusta gli dia il colpo di grazia, fragile com'è, lui e i suoi colleghi di siringa o di vena, che di quando in quando spariscono dietro i cespugli di more perennemente spogli, come i rari alberi di fichi disseminati lungo questo percorso bucolico che si apre improvvisamente e improbabilmente nel bel mezzo dei quartieroni di palazzoni di Corsico, Buccinasco & company, spogli in realtà, perchè qualsiasi bacca o frutto non fanno in tempo a crescere che nugoli di pensionati che hanno tutto il tempo per godersi la miseria della recessione galoppante, li estirpano neanche giunti a maturazione, con quell'ottica di rapina che l'italiano medio di ogni latitudine si ritrova ad avere di fronte alla cosa pubblica.
Poi di volata lungo un vialone, a destra campi di granturco d'estate o brulli d'inverno, gracchianti di cornacchie grigie in pasturazione, attraverso gli occhi delle quali faccio delle esplorazioni in zona, immaginando di trasformami in qualcuno di questi volatili che secondo Castaneda sono dei conduttori momentanei o permanenti di anime, ricognitori alati attraverso gli occhi dei quali uomini dotati di speciali capacità oniriche riescono a vedere e prevedere agguati di nemici e incombenze della vita. Qualche airone cenerino o bianco, attraversa il volo il vialone, mentre a sinistra condomini di due o tre piani immersi in giardini così curati da sembrare artificiali, stanno immobili e silenti come transformers congelati da qualche potenza aliena in attesa di attivarsi in un futuro prossimo venturo così lontano da immaginare che gli uomini se ne andranno in giro con le clave.
Dopo una curva, vedo in fondo ad un altro vialone, una grande fontana, al centro di una rotonda che regola il traffico, mentre a sinistra, lungo la siepe dei condomini verdeggianti, qualche altro jogger si dà da fare per consumare delle costose scarpe nuove fiammanti appena acquistate da qualche negozio di settore dall'altisonante nome di “Paradiso del Runner”, tipico, questo aspetto di un popolo che non sa più improvvisare, ma che tende a svolgere tutto, qualsiasi cosa, in base a canoni di specializzazione, in ossequio alla cultura della specializzazione, la cultura delle varie Bocconi e Luiss, dove ti insegnano a pensare solo con un lato del cervello, quello che serve a chi detiene le leve del potere economico e finanziario del pianeta. Oltre la fontana attraverso un parco dove spesso trovo uomini o donne di mezz'età, che accompagnano i cani a pisciare, così assomiglianti che qualche volta mi viene fatto di pensare che siano i cani a portare loro a pisciare, e a volte mi fermo davanti a delle panchine di pietra a fare degli esercizi, per gli addominali o piegamenti sulle braccia, ma senza il fanatismo “marine” del fissato per la cultura fisica, ma più che altro per accertarmi dell'esistenza in vita delle altre parti del corpo che non siano le gambe motore giocoforza del corridore. Qualche volta le panchine del parco sono affollate di sbarbati dal viso albino e sbattuto che mi guardano circospetti e impauriti, mentre si rollano le loro canne di noia postprandiale o serale e mi guardano con odio, sfrecciare sulle passatoie di mattoni che serpeggiano in mezzo all'erba morta o tenuta in vita a flebo di pesticidi, mi odiano a prescindere, diverso dai diversi del neoconformismo tetracannabinolico, della serie se non fumi erba o hashish non sei della crew( almeno fosse vero hashish, è solo sterco incartaopecorito vendutogli da marocchini affabulanti meraviglie tossicologiche da inesistenti “Mille e una notte”). Svolto a destra e taglio per un pezzo d'erba e m'infilo in un viottolo a fianco di un nuovo compresso di palazzoni, sul mio lato sinistro un canale irriguo di acqua limpida e davanti a me due panchine quasi sempre vuote, lignee panchine che stanno all'ombra di due immense e imponenti querce che mi commuovono e che mi danno la sensazione di essere degli eroi arborei che sopravvivono come vecchi e immortali guerriglieri all'avanzata del cemento e dei quartieri di calcestruzzo nati da plastici di architetti spastici brillanti solo a rimpinguare i propri conti in banca e a sedersi ben abbronzati di lampada in studi televisivi a fare le star, tragicomico destino di chi ha progettato carceri dorate cinte da giardinetti finti, scale finte, cemento finto e balconi in anticorodal spacciato per glamouroso. Passo attraverso un ponticello di legno e faccio un altro pezzo di viottolo brecciato, in mezzo a due canali irrigui sui lati, dove talvolta vecchi “sciuri” in pensione se ne stanno in bermuda stinte a pescare con nipoti entusiasti di questo piccolo Quark in scala ridotta che darà loro l'illusione di sapere cos'è un pesce, idea che quel assai poco guizzante surrogato di trota che di quando in quando vedo dimenarsi alla moviola appena preso all'amo non potrà mai dare. Privo com'è, oramai della violenza tipica di tutti gli esseri liberi che rinuncerebbero alla vita pur di non finire in una casseruola, abituato a quei piccoli corsi d'acqua artificiali il cui corso è deciso dall'uomo, pesci detenuti, che hanno perso ogni orgoglio protervo di anelare alla libertà. Sulla sinistra mentre faccio un pezzo di asfalto, mi appare il cimitero di Buccinasco, e mentre osservo quei lumini o quelle tombe con croci stinte o lignee e qualche parente con dei fiori in mano che chiude la macchina con un comando a distanza ed entra nel camposanto come sull'Enterprise di Star Trek e mi faccio la croce, così, come un antico gesto apotropaico in omaggio al paterno non ci credo ma ci penso, ma più che altro per ideale ossequio ai miei morti sparsi per i vari cimiteri appulosalentini, per tutte quelle volte che non ci vado, tutte le volte che passo da quelle parti, nutrendomi dei vivi e trascurando i morti e le loro tombe, che, si creda o non si creda, sono templi del ricordo, dove davanti ad una foto e ad un mucchietto d'ossa , uno finisce per parlare a delle anime o entità che non esisteranno più. Questo uccide gli uomini, non l'aids, la sifilide, la peste, il cancro, l'uomo lo uccide l'idea che alcune cose e , soprattutto, alcune persone, non tornino più e uno le tiene vive nei ricordi finchè un alzahimer o la vecchiaia incombente non stempera e sporca persino quelli. Epperò illuderci di essere individui superiori a qualsiasi altra specie del creato, ci lascia mostrare una hybris fuori luogo che ci autorizza a travalicare ogni limite, sia nel buon senso che nelle atrocità.
Adesso entro sotto un arco artificiale che annuncia che sto immergendomi in un percorso vita, non prima , però di essere passato sotto un ponte della tangenziale ovest, mentre milioni di macchine ci passano su con una violenza inaudita, meccanica, elettronica e dromologica, milioni di persone che vanno o tornano dal lavoro, tutti soli, uno per macchina, quintessenza dell'individualismo solipsista imperante pietra angolare del consumo di merci. Passo all'interno di un complesso di casette di campagna, giusto davanti ad una vecchia cascina, dove una chiesetta, la chiesetta della Madonna bambina di Buccinasco , sempre chiusa solitaria e buia all'interno , mi accoglie con la sua presenza imperitura di un edificio bastante a se stesso persino nell'incombenza di sgretolarsi. Due madonnine a bordo strada mi impongono un nuovo segno della croce, questa volta ad invocazione di numi, se esistono o meno si vedrà, che mi aiutino a fare la salita che mi farà attraversare il ponte che ho già attraversato sotto il fondo stradale. E vedo già, a metà salita l'enorme interminabile teoria di macchine che insieme producono quel caratteristico rumore di traffico, di fervore meccanico, quasi un urlo da stadio, più uniforme e monotono, della tangenziale ovest, mentre sulla mia sinistra una grande risaia mostra nello specchio dell'acqua che la inonda nuvole grigie proteiformi che mostrano facce di Padre Pio, Cristi in croce , teste di Che Guevara col basco che fumano un sigaro, dirigibili tedeschi, Corto Maltese sulla plancia di un veliero o Tex Willer a cavallo in cerca di un pezzo di deserto per un bivacco ritemprante. A centro ponte vedo milioni di macchine passarmi sotto e tutti mi guardano sfrecciare sul ponte con la mia andatura stanca e caracollante e pensano con invidia malcelata allo sfigato che sono, incapaci solo di lontanamente concepire che in quel momento sono l'uomo più felice della terra. In quel momento i miei sensi al massimo dello sforzo sono anestetizzati all'ennesima potenza, potrebbero spararmi o infilzarmi con una freccia di balestra che non potrebbero fermarmi, le endorfine al massimo, come sotto l'effetto di mille dosi di morfina, ed ho tutto dentro come qualsiasi altro essere umano, sto solo scoprendo le mie potenzialità...che questo è in fondo che si richiede all'uomo, questo deve essere il suo scopo precipuo in questa vita, portare al massimo livello la sua ricerca di conoscenza sul mondo e su se stesso nel mondo, potrei abbracciare tutti gli esseri viventi sentendomi armonico con loro proprio perchè non sembra importarmene per nulla di loro proprio perchè me ne importa e c'è buddismo in questo, c'è taoismo, e ce l'abbiamo tutti dentro solo che non sappiamo come si chiama, non sappiamo riconoscerli, potremmo chiamarlo in onore della cultura cristiana, lo spirito santo. Non c'è bisogno di credere, basta staccare il cervello dalle incombenze materiali del vivere, anzi dalla dittatura della produzione di beni e servizi per altri, anche solo per una quarantina di minuti, tutti i giorni, chi con la corsa, chi con lo yoga, cucinando o bevendo una ceres o un tè verde al bergamotto, lontani da quell' eleusino oracolo tecnologico della tv, che ecco che tutti noi siamo in grado di riconoscere quel momento zen che dà un senso compiuto alla nostra vita. In discesa a rotta di collo, in mezzo a capannoni industriali, mentre chiudono e gli ultimi dipendenti fumano la sigaretta della staffa prima di mettersi in macchina e percorrere la tangenziale. La stazione di servizio sulla destra, mentre un bel po' di impiegati dopolavoristi si stanno lavando con dovizia l'auto, con una pompa a mano che spruzza acqua ad una velocità impressionante, mi lascia pensare che lo stiano facendo per rilassarsi e per far godere la loro utilitaria, quasi la personificassero e infatti qualcuno ci parla, l'accarezza, la coccola. Attraverso due rotonde e mi immetto su una pista ciclabile rossastra, in mezzo a capannoni industriali che emanano odori forti di vernici e lacche che mi fanno venire in mente ragazzi di strada ai semafori di Fortaleza sporti al finestrino del taxi che chiedono spiccioli strafatti di colla, bruni, ambrati ma tragicomicamente profumati dalle lacche inalate a profluvie. Al termine della ciclabile svolto a sinistra tagliando una rotonda, una collega di lavoro rumena in bicicletta mi riconosce e mi guarda con un improvviso interesse che io immagino persino sessuale , abituata a percepirmi e vedermi come un collega di lavoro piuttosto intellettuale e stolido, potere disinibente dell'atletismo mostrato in strada.
Percorro un tratto di strada verso l'involontariamente tautologico Parco della Resistenza, a destra ragazzi fumano uscendo da una palestra di bodybuilding dove a parte rimirarsi allo specchio non hanno fatto molto al contrario di quel che pensano vedendosi grossi. Per correre ci vogliono le palle, non basta fare i pugili, i calciatori, i giocatori di rugby, i karateka, solo la corsa forgia il carattere. E bisogna correre immaginando di fare il doppio di strada di quella che si sa di dover percorrere. Lungo l'inferriata del Parco della Resistenza, sfreccio con la mia maglietta con su scritto “Partigiani Sempre” e un idiota italico medio mi lancia un “meno male che Silvio c'è”, cantato e un “Italia uno” urlato, in questo paese che ha perso il senso del pudore e che non si vergogna più di niente , nemmeno della propria ignoranza. Corro ancora lungo il periplo del parco che fra qualche anno si chiamerà Parco del Grande Fratello , c'è da giurarci, ma niente mi distrae dal completare il mio allenamento, nulla può distogliermi dal mio bipede viaggio quotidiano nel viaggio della vita. Ancora un allungo e infilandomi in dei vicoli, in men che non si dica, sotto gli occhi di esterrefatti passanti, chi fumando, chi flirtando appoggiati a un auto, percorro gli ultimi cento metri, che faccio alla velocità del velocista giamaicano della mia immaginazione. Una volta fermo continuo a camminare. Trenta metri e sono davanti a casa , dove mi fermo davanti ad un palo che segnale divieto di sosta a fare stretching, indispensabile corredo al termine della fatica. Osservo il palazzo di fronte al mio, un palazzone vecchio e crepato, dove al quinto piano alcune finestre sono aperte estate e inverno e nere nigeriane e russe discinte si alternano a lavare piatti e cucinare, lanciando di quando in quando sguardi al mio indirizzo e sorrisi sornioni, in reggiseno alcune, con magliettine che coprono tette free lance, altre. Io rispondo al sorriso e faccio per rientrare nel portone del mio condominio. Nella mente la gradevole immagine di questa gente che sa ancora sorridere e che se ne frega della disperazione, e che anzi la scaccia dalla propria vita in modo ammirabile, mentre lava i piatti nel proprio momento zen della giornata, prima di andare a battere o a fare lavori pesanti e malpagati in pizzerie di italiani che non sanno più apparecchiare un tavolo , o in fabbriche che gli italiani non sano più tenere pulite o prima di andare a mandare i soldi con money transfer in lontani paesi che sembrano sputi su google maps, ma che conservano la memoria genetica di un'umanità che noi italiani abbiamo perso per strada perchè ci siamo creduti americani. Incontro nelle scale un paio di inquilini del mio condominio. Facce tristi e spente di chi ha casa, box auto e abbonamento a San Siro ma non sa più sorridere alle foglie secche.

venerdì 2 settembre 2011

Come un racconto (terza parte)




Il lavoro sul polpaccio procede. Il viso Yanomami viene inciso per sempre nel polpaccio. Camminerò nella giungla per sempre. Sull'impiantito dell'azienda, per strada, su asfalti roventi o bagnati esalanti aloni come geyser, su strade sterrate, ovunque. Quello che mi interessa del tattoo è lo spirito che ti infonde. E c'è il fatto, poi, che io non ho la faccia da tatuato e non mi piace ostentarli. E' bello vedere l'espressione di meraviglia sul viso quando ti spogli, in spiaggia al mare o prima di fare sesso. Gli occhi di chi ti guarda si fumano una canna senza fumarsela. Rispetto agli altri due tatuaggi, rispettivamente un minotauro e un budda giovane, scolpiti sui deltoidi, questo, sul polpaccio, fa male, dopo un po'. Certo un dolore sopportabile che ti ricorda in senso buddistico il dolore di esistere. Con la mente vago, esco dal palazzo, scendo per le strade del quartiere, zona Cologno Monzese. Incontro un uomo che si muove con una stampella. Soffre molto nei movimenti. Ogni passo una smorfia di dolore. Più avanti incontro un vecchio. Il suo viso è scavato e triste, la vita è passata e non ha fatto quello che avrebbe voluto fare. Alla fine tutti dobbiamo morire. In pratica faccio lo stesso percorso iniziatico del Buddha. Con la mente. Ritorno in me. Tommy mi sta scolpendo il tattoo.
“Non mi piace fare tatuaggi a scopo commerciale. Non faccio tatuaggi a chiunque. Mi deve piacere la persona a cui tatuo qualcosa. Porterà tutta la vita addosso qualcosa di mio. Si stabilisce per sempre un rapporto personale”, dice.
“Questi tatuaggi non lo vedrai mai in giro a nessuno, sono frutti di disegni unici creati a posta per te o per chi tatuo”, dice ancora.
Renata sfoglia Tolstoj e assente col capo .
“Uh uh”, dico io.
Va avanti veloce, Tommy e in un'ora a mezza ha già definito il disegno e si accinge a passare alle sfumature in nero dei capelli.
Come un alchimista muove minuscoli alambicchi plastici attento a non contaminarli per poterli riusare, con aghi rigorosamente monouso. Ci versa dentro i colori. Pulisce il lavoro fatto con uno spruzzino di disinfettante. Si cambia i guanti sterili. Il sole comincia un po' a perdere di intensità, la sua luminosità prende ad opacizzarsi. Forse una nuvola, forse il pomeriggio inoltrato.
Renata di quando in quando dà una mano, ora a noi, ora a Pablo, per consolarlo. Non riesce proprio a capire che cosa stiamo facendo, poverino. E perchè non giochiamo con lui.
Ad un certo punto facciamo una pausa. Io vado in camera da letto e guardo allo specchio il frutto della prima stesura. L'immagine è nitida e ben scolpita, il nero dei tratti intenso. Fra un po' passeremo alle sfumature, alle rughe , ai particolari degli occhi, che Tommy vuole ieratici e magici, come si conviene ad un personaggio di impronta castanediana. Beviamo un bicchiere di Canonau, che fa sempre buon sangue. Guardiamo al pc qualche foto del recente viaggio che Tommy ha fatto in Sardegna, terra della metà del suo sangue, da parte di madre. La seconda metà , quella da parte di padre, è calabrese.
Belle foto con sfondi naturalistici di natura mediterranea, macchie di lentischi , ginestre , rocce preistoriche, fichi e fichi d'india. Assolutamente assente alcun tipo di fico milanese doc o d'importazione.
“Ero al bar con un mio amico d'infanzia. Lui adesso fa il finanziere. Io l'ho salutato. Lui mi ha guardato come se avesse visto un gremlins. Mi fa, sei tutto tatuato, ma che ti è successo? Scommetto che c'eri anche tu a Genova, al g8. Io gli dico, ma che cavolo c'entrano i tatuaggi col g8? Sei proprio un ignorante. Fra noi due chi è peggiorato, gli dico, nonostante le apparenze, sei tu. E me ne sono andato per i cavoli miei. Finchè la gente ragionerà per luoghi comuni non cambierà mai niente”, dice Tommy.
“Allora fai prima a dire che non cambierà mai niente...cambiano le facce e i colori, ma le architravi della società, vale a dire Economia, Chiesa, Politica , vengono mossi da pochi grandi vecchi che si assicurano che cambi tutto senza che cambi niente. Siamo il paese dei gattopardi”, dico.
“Siamo il paese delle zoccole”, dice Tommy. Touchè.
Riprendiamo il tattoo. Mi ristendo sul tavolo. Pablo ora siede ai piedi del tavolo, la lingua penzoloni a lavare il parchè, sembra essersi calmato ed aver accettato la sua condizione di animale essere innocuo che si contenta della vicinanza e della prossimità degli umani, senza contatto fisico alcuno. Renata riprende Tolstoj. Guarda con soddisfazione al lavoro svolto e dà qualche consiglio. La luce del sole comincia mano mano ad affievolirsi . Ora il dolore al polpaccio comincia a farsi intenso, come tante punture di spillo. Esercito la mia resistenza fachirica cercando di non darlo a vedere. E' il momento dei colori. I minuscoli alambicchi vengono intinti di continuo per il rosso, il blu e il giallo delle bacchette infilate in naso e labbra dell' indio. Il verde viene dato sulle foglie intorno alle orecchie, tutto in sequenza.

Al tramonto il lavoro volge al termine, sono trascorse circa sei ore ed il risultato è francamente incoraggiante. La faccia dello Yanomami è ora immortalata per sempre sul mio polpaccio. Me lo porterò con me fino alla tomba e porterò un pezzo d'anima di chi lo ha disegnato con me . Renata nel frattempo va di là in camera da letto e naviga per un po' in internet. Ecco, adesso, sono al culmine del dolore. La schiena mi fa male, per essere stato disteso a lungo prono e le punture di spillo si fanno sentire lancinanti. Non c'è più endorfina che tenga.
Tommy dà gli ultimi ritocchi e mi consente di alzarmi in piedi. Guardo il risultato allo specchio nella camera da letto, aprendo le ante dell'armadio. Lo Yanomami sembra animato di vita propria, i muscoli del polpaccio agitandosi per il movimento del camminare dà alla faccia una plasticità sconcertante. La faccia parla, sembra volermi parlare, sembra volermi dire delle cose . Forse mi maledice per essersi trovata di colpo sul polpaccio di un uomo occidentale che vive nella modernità che è la lapide della vita primigenia. Che altro non è se non la vita vera tout court. Mi siedo per rilassarmi un poco. Mi sento come in preda ad una strana febbre. Bevo un bicchiere di Canonau per riprendermi. Renata comincia a cucinare una pasta con sugo di melanzane. C'è una catartica armonia nell'aria, dopo una sofferenza che non assomiglia per nulla a quella della vita quotidiana. Mi sembra di essere stato altrove. Nella giungla amazzone , in un tempio buddhista zen o a Badu'e carros, in un carcere speciale sardo, dove detenuti politici di una rivoluzione che non c'è mai stata meditano su una sconfitta nata dall'aver confuso il popolo con la gente .
Tommy, con calma, comincia a mettere in ordine le sue cose, in mezzo al tepore dei tegami con sugo di melanzane e pasta a bollire .
Dopo una ventina di minuti di assestamento, Renata si assenta per andare in bagno e Tommy, lì, seduto, di fronte a me prende a parlarmi.
“Quando siamo stati in Sardegna in vacanza, mi è successo un fatto che definirei magico. Lo sai io sono un razionale, non credo molto a queste cose, ma si è verificato un fenomeno sconcertante. Mentre ero a letto una notte, ho sentito in alto, davanti a me disteso, un intenso profumo di tabacco e di sudore che mi ricordava mio zio. Una specie di nuvoletta. Non mi sono spaventato. Ho cercato di capire meglio cosa stesse succedendo, se per caso stessi sognando. Ho auscultato i capelli di mia moglie che dormiva a fianco. Ma non proveniva da quei capelli, quella emanazione. Mi sono rivoltato e quella cosa, dio, era ancora sopra di me. Un profumo intenso di tabacco e di mio zio. Sai io quando vado in Sardegna vado sempre a fargli visita al cimitero. Ma questa volta ancora non c'ero stato. La cosa è proseguita per parecchie ore. Non ho pensato a nulla e non ho avuto paura. Non l'ho detto a nessuno. La mattina dopo sono andato al cimitero, sulla tomba di mio zio. Gli ho parlato . Mi sono scusato con lui per non essere andato a trovarlo prima . Poi il fenomeno non si è più ripetuto. Ecco lui voleva solo questa gentilezza, che lo andassi a trovare”.
“E che idea ti sei fatto?”, gli chiedo.
“Niente, nessuna idea. Forse noi non moriamo veramente, cambiamo solo stato, diventiamo, ghiaccio, acqua, vento, ma la nostra energia resta per sempre. Per questo quelli che fanno i figli al solo scopo della continuazione biologica di se stessi, sono una manica di egoisti. Un figlio è una vita a sé stante, non un tuo clone. E tutti noi siamo energia inestinguibile. Esiste tuttavia un mondo in cui la morte muore veramente. Ma non sono sicuro che sia proprio un male, questo”.
“Già, può essere l'estinzione perpetua del dolore, un concetto buddista”.
“L'hai detto, fratello”.
“Nel disegno dello stregone, per il tattoo, ti sei ispirato a questa cosa?”.
“Un po' si, lo devo ammettere. La faccia sembra quella di un uomo oltre ogni tempo”.
Nel frattempo Renata è rientrata. La pasta è pronta e serve questo piatto mediterraneo, che Tommy non perde tempo a sottolineare, vegetariano, in tavola. E'molto buona e il Canonau la accompagna degnamente. Renata è tutta soddisfatta del proprio risultato e del gradimento machista di noi mediterranei seduti piantati in tavola come gli uomini di una vola del sud cui le donne non concedevano alcuna collaborazione.
Poi Tommy si alza, con mia viva sorpresa. Ma è per prendere una prelibatezza da farmi assaggiare, dice. Una crema di mirto di Chia. Una vera rarità, a quanto pare. Ne bevo un bicchiere ed ha un sapore paradisiaco. Glielo faccio notare e i suoi occhi gli si illuminano. Altro che Bayles, quella merda la lasciamo bere ai fichetti impregnati di pubblicità ed happy hour.
Ce ne stiamo seduti per qualche tempo, in tavola, a parlare del più e del meno. E più è trascorso il tempo e meno abbiamo parlato di lavoro. L'armonia ha fatto il suo ingresso nelle nostre vite della giornata. Ma è già tardi ed io devo andare. Sono venuto con i mezzi ed è già quasi mezzanotte . Ma c'è tempo per un mirto, puro questa volta, che mi lascia sul palato il sapore della macchia mediterranea, delle scogliere dove si infrangono mari gravidi di ricci, del vento che stormisce le fronde della macchia mediterranea e del lontano verso di un gheppio che ha già scovato la sua arvicola di turno.
Dopo un po' usciamo tutti e quattro, Pablo compreso. Eccoci qui, nel buio hinterlandiano inoltrarci con la stanca a sacaracchiante Ka per le strade della periferia milanese, verso Sesto Marelli. Ci salutiamo affettuosamente. Tommy mi dà le sue ultime raccomandazioni sull'uso del Bepanthenol, una crema lenitiva normalmente usata per i rossori naticali neonatali. Scendo dalla macchina e con le mie bermuda celesti, mi addentro all'interno della metro, con la caviglia fasciata dal domopak, più per tema che lo yanomami urli per lo spavento dei mostri che andrò ad incontrare, che per proteggere il polpaccio.