martedì 21 settembre 2010

Racconto


Mohamed


Mohamed se ne stava sempre seduto su qualche scalino d’ingresso delle abitazioni a fianco alla Coop con una lattina di birra di marca infima o un litrozzo di vino rosso in tetrapak di quelli a buon mercato, sorseggiati lentamente come bevendo da un alambicco. Aveva un viso scuro reso ancora più tetro dalla barba alquanto incolta tipo un campo di grano gestito in modo dopolavoristico. D’inverno indossava sempre dei pantaloni verde militare lunghi e un maglioncino mimetico e d’estate un paio di bermuda dal colore verde terraceo stile talebano acquattato fra le rocce aguzze di un deserto afgano…a volte a torso nudo, più spesso con t-shirt maleodoranti che sagomavano impietosamente la sua pancia prominente di forte bevitore. Ogni tanto scambiava qualche parola con Afaf, una puttana marocchina il cui nome, ironia della sorte, in arabo significava “castità”. Lei era bella,formosa, pelle olivastra e capelli ossigenati da attrice di Hollywood, e si spacciava per turca, come se questa cosa potesse attribuirgli una maggior credibilità professionale. Parlavano fra loro in quella lingua così ostica e così affascinante, che a noi occidentali dà l’impressione sia tale e quale alla salmodiante dettatura di codici fiscali fatta da impiegati del catasto. Ogni volta l’argomento era sempre lo stesso. E cioè che Mohamed non aveva di che pagarla e che lei con i barboni non ci usciva. Metafora più metafora meno. Così Mohamed finiva per riattaccarsi alla lattina o al tetrapak e lasciava perdere. E Afaf entrava dal cinese e ordinava del riso con i gamberoni. Diceva che poi sarebbe passato suo marito a saldare. Suo marito era un marocchino vestito sempre elegante che se ne andava in giro con un Kawasaki 500 che faceva impennare ogni volta che ripartiva di slancio. Dopo aver saldato i conti. Con i soldi di sua moglie. E mi ricordo di quella volta che Mohamed se ne stava seduto a sorseggiare la sua birra, come un saggio beve il tè nel deserto. Voglio dire con quella stessa solennità, dettata dal rispetto che si nutre per la cose donate o ricevute senza aver sudato il sudore della propria fronte. Era a pochi passi dall’ingresso della Coop, dove di solito staziona un nutrito gruppo di ambulanti senegalesi che vendono cd taroccati,scarpe nike di fattura napoletana e qualche strana sostanza mischiata alla resina che serviva da base a delle pessime canne. I senegalesi erano vestiti eleganti, come rappresentanti di commercio, a momenti giacca e cravatta, con scarpe lussuosissime che indossavano anche d’estate, e portavano bracciali e anelli d’oro. Camminavano sempre molleggiando, quasi a rimarcare la loro assoluta rilassatezza dei movimenti e il fatto che il proprio corpo degnasse appena d’importanza l’importuna incombenza del camminare. Ad un certo punto uno di loro, una sorta di centometrista olimpionico, coi pantaloni ben stirati, la cintura di coccodrillo e vari bracciali tintinnanti al polso, la camicia aperta e il pettorale ben scolpito, avrà avuto una trentina d’anni, sbotta nei confronti di Mohamed dicendogli di spostarsi. Che alla gente faceva schifo avvicinarsi lì e che stava rovinando i loro affari. Mohamed continuò a sorseggiare la sua birra. Lo guardò e gli sorrise con gli occhi. Gli sorrise con la bocca, ma data la totale mancanza di denti, fatta eccezione per un molare sopravvissuto all’assenza di adeguate cure dei servizi nazionali sanitari di una mezza dozzina di paesi europei, il “Senegal” lo capì dagli occhi che stava sorridendo.
“Barbone sciroccato, bevi in continuazione contro tutte le leggi del corano, non ho mai visto un mussulmano così poco osservante”, gli urlò il senegalese in un italiano potentemente venato di francese. Mohamed lo guardò, ma ancora non diceva niente. Solo sembrava ridere e il molare gli sporgeva dalla bocca come un antico rudere di qualche civiltà mesopotamica scomparsa. O perlomeno con la stessa alterigia con cui un rudere millenario può guardare il più imponente grattacielo di cristallo circondato di ascensori spaziali.
Senegal insisteva ancora con questa storia del mussulmano e dopo un po’ , dopo l’ennesimo sorso , Mohamed si decise a dire qualcosa.
“Sono arabo, non mussulmano. A-ra-bo.Capito! Esistono mussulmani arabi, italiani, americani e cinesi. Ci sono anche mussulmani cinesi, se non lo sai , Senegal. E io voglio stare qui a bere la mia birra. Pensi di essere più pulito di me, tu che vendi droga? Non mettere la religione in mezzo, è sempre la scusa migliore per prepararsi ad uccidere”.
Aveva parlato diretto, in un italiano con forte accento arabo e il senegalese era rimasto per alcuni minuti che dovevano essere sembrati un’eternità, a lui e ai suoi amici, senza parole. Non si aspettava che l’arabo parlasse. Non si aspettava che reagisse. Non si aspettava che lo svergognasse così. La voce del barbone lo lasciò senza parole. I suoi amici si aspettavano che reagisse . Ma lui non fece niente. Mohamed sorseggiava la sua birra e rideva con gli occhi. Afaf uscì proprio in quell’istante dal cinese e passò davanti ai sei o sette Senegal boys. Sorrise loro lasciva e gli ricordò che il suo numero era sempre a disposizione alla cassa del cinese. Bastava chiedere alla cassiera,”Cuore di Giada”. La chiamò proprio così, in italiano, e doveva essere la traduzione del suo nome cinese. Mohamed la guardò con una certa ironia. E proseguì a sorseggiare.

A volte corro nelle campagne dietro casa. In tutte le stagioni. In estate c’è sempre il granturco che cresce da un giorno all’altro, a vista d’occhio, nutrito da un concime fecale suino. E come non ci prendiamo l’influenza suina dai pop corn qualcuno me lo dovrebbe spiegare. In inverno, la strada sterrata si dipana in mezzo a canali irrigui e campi deserti, con stoppie stalattitizzate dal gelo polare. E io corro sul ghiaietto a passo lento, scrivendomi in testa un mucchio di cose che non riesco mai a trasferire su carta. Sono il più grande romanziere dei romanzi scritti col pensiero durante lo jogging. Non ci sono prove per smentirmi. E a volte durante le mie sortite tapascionesche, incontro Mohamed. Abita in una cascina abbandonata , senza elettricità e senz’acqua. Si fa il bagno nei canali irrigui insieme alle nutrie che lo salutano festose come un amico. A volte lo incontro a piedi , lento e stanco, col capo in basso riflessivo. A volte con un vecchio motorino “Ciao”rosso stinto e arrugginito che penso funzioni con i gas residui della marmitta. Uno di quei motorini moribondi che hanno visto l’ultimo pieno quando i Righerira cantavano “Vamos a la playa”. Con a fianco il suo cane fedele: un grosso pittbull da competizione che gli obbedisce come una marionetta paffuta e gigantesca. Cui impartisce ordini secchi e precisi. Quando passo lo saluto con la mano, caracollante e sudato. E lui ricambia riverendomi e facendo accucciare il cane al suo fianco. Mentre gli spiega che sono un amico. Sono un amico. Non l’ho mai invitato a casa, non gli ho mai offerto una birra, l’ho solo salutato e , a volte , sorriso. E lui mi ritiene un amico. Deve essere qualcosa come fra animali. Un istinto.
E mi ricordo bene di quella volta che mi incontrò mentre ero di ritorno dal lavoro con la bicicletta e mi fermò tutto eccitato, con due angurie in mano. Per dirmi col suo italiano schietto e rudimentale che le angurie gliele aveva portate suo fratello che lavorava in nero a 5 euro all’ora come manovale a scaricare meloni. Per un pugliese. Me ne offrì una e io rifiutai l’offerta, perché non sapevo dove metterla e avevo il frigo pieno. Lui mi ringraziò lo stesso… Di avergli rivolto la parola. E mi salutò e mi riverì come uno sceicco. O perlomeno così parve a me che ero nato in un paese di gente che si credeva superiore perché c’aveva qualche soldo per pagarsi le puttane.


Ora è un po’ di tempo che non lo vedo, Mohamed. Spero che sia sopravvissuto all’inverno polare e che d’estate ce l’abbia fatta a dormire sotto l’aria condizionata dei pioppi , ben cosparso, di guano di canali antizanzare. Un po’ come si pensa di gatti o cani abbandonati in campagna, di cui ti ricordi quella volta che hai mangiato pesce e hai un po’ di spine avanzate da offrire.




Buona giornata e buona fortuna

1 commento:

  1. leggevo il primo pezzo e dicevo "questa non è una storia, è vita vissuta, lo conosce veramente", e infatti il secondo pezzo mi ha confermato l'ipotesi.
    anche io avevo il mio barbone che salutavo e mi fermavo a parlare con lui.. anzi una volta gli ho anche regalato una scatola di toscani.
    poi è sparito.. alcide si chiamava.. abitava da anni in stazione.. e purtroppo temo alla fine non abbia retto quella vita.
    siccome ero l'unica signora che lo badava si era preso una cotta per me, e allora, con i soldi delle elemosine andava a giocare all enalotto o quel che è, per vincere, diventare ricco e chiedere di sposarmi... guarda, una tenerezza...

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