mercoledì 26 ottobre 2011

Eravamo l'impero Romano, ora ci vendono ai cinesi.


Che volete che vi dica. Lavori in corso. Sto riscrivendo l'ultimo capitolo del prossimo libro che pubblicherò.Ho una specie di blocco. Mi perdonerete se me la prendo comoda. Dopotutto potete deliziarvi con Margaret Mazzantini & c no? Io ho il mio pubblico di nicchia e a quello solo devo dare conto. Gli altri, i milioni che comprano libri nelle librerie sulla fiducia, o perchè hanno belle copertine e sono voluminosi e fanno arredamento, non mi interessano più di tanto. E' che sono innamorato. E quando questo evento accade , con la stessa frequenza, per me, dell'apparizione della cometa di Halley sulla terra, bisogna approfittarne. Non ne volevo parlare, ma ne accenno ora. Non entrerò nei particolari, dicendovi subito che adoro la cultura giapponese proprio per quel suo senso di estrema riservatezza e rispetto della privacy. Mi rendo conto che noi italiani come paese latino rispettiamo solo la privacy dei nostri conti in banca e quando evadiamo il fisco. Nelle lenzuola degli altri , però, sembriamo sguazzarci. La tv mi annoia a morte. In questo momento dove metti metti c'è su Simoncelli. E che cavolo, un pò di rispetto per un ragazzo semplice che non avrebbe certo gradito questa sovraesposizione mediatica. Incredibile come per pagare liposuzioni e botox a tre quarti di presentatrici televisive, quanto serva il dolore e lo spiattellarlo nel pomeriggio mentre le casalinghe stirano e piangono. Non c'è il rischio che si trasformino in vietcong e taglino la gola ai propri amanti mentre fanno l'amore. Non siamo in Vietnam e Mario Draghi e Berlusconi non sono certo dei marines. Per fortuna dei marines. Sono due anzianotti che hanno il compito di svuotare le tasche dei risparmiatori per rimpolpare le banche, sorta di istituti di strozzinaggio legalizzate. La Grecia affonda in un debito che non riuscirà mai a pagare e noi ci stiamo per affondare. Siamo un paese che non è capace di cacciare a calci nel culo questi usurpatori di diritti, questa banda postribolare di arrogantoni senza cultura che stanno lì avvitati alle poltrone, per i propri lerci interessi. Mentre quelli che fingono di fare opposizione perfezionano le loro performances teatrali frequentando corsi all'actor studio. Dio ce ne scampi e liberi. Ha un bell'indignarsi, Bossi, che grida Roma ladrona ad ogni piè sospinto, mentre sua moglie prende una pensione di anzianità dopo meno di vent'anni di lavoro ( da Roma Ladrona) e ogni mese fra lui e il figlio, portano a casa qualcosa come 40 mila euro. Roma ladrona una ceppa, Bossi. Dimettiti. Berlusconi non lo nomino nemmeno, perchè lui in carica non c'è mai stato. Ha recitato a soggetto qualche copione di Giuliano Farrrara, fra un cocktail perty e l'altro.E questo per essere moderati. Continuo a pensare che l'Europa unita è un nonsense storico-politico. Fra un pò i vari Sarkozy e le varie Merkel ci daranno in pasto ai cinesi. E quelli ,notoriamente sono comunisti e , di conseguenza, mangiano i bambini. Capito Carà?

Buona giornata e buona fortuna

mercoledì 5 ottobre 2011

Come una bossa nova (quattro)


L'altro giorno correvo nella campagna verso Gudo Gambaredo e passando vicino alle due piccole statue delle madonnine silenti e ridenti nelle loro nicchie e il cielo era plumbeo pieno di nubi uniformi, il sole invisibile dietro quella coltre non riusciva neanche a dare un effetto aureola e faceva freddo, un freddo umido di quello che ti penetra nelle ossa e il sudore mi si stava ghiacciando addosso, sotto un k-way rosso scarlatto il mio colore preferito, sollevando la testa verso il cielo ho visto un stormo di storni che volavano sul tetto di due vecchie case intorno ad una cascina, volteggiando all'unisono e all'unisono formando strane figure in cielo, come coperte scure in volo o pterodattili o il segno dell'infinito sullo sfondo grigio della volta e cinquettavano, quasi uno squittìo multiforme, ma più allegro, come di bambini innocenti alle prove generali delle figure geometriche per la parata del primo maggio in Nord Corea. E i profumi e gli odori venivano amplificati dall'umidità ma anche dall'acuimento dei miei sensi derivante dallo stato alterato biochimico di un'ora di corsa già trascorsa che aveva prodotto nel mio cervello milioni di endorfine, e così ho provato delle sensazioni strane che mi derivavano dall'olfatto, involontarie madelaine costituite da odori di fango di canali irrigui, odore di sterco usato come concime per le colture, afrori di bestiame, di piume umide di gallina e di pelo di conigli selvatici lasciati scorrazzare per quelle campagne liberamente, odore di foglie secche e funghi che nascono ai piedi di qualche albero che fa da sentinella a quelle strada sperdute e deserte dove incontri aironi cenerini in fila sul ciglio dei campi di sterpaglie o aironi bianchi che volano planando come bianchi fantasmi diurni con intenzioni benevole e decine di cornacchie grigie che , nel freddo artico di questo finale di ottobre, scavano col becco nello sterco per cibarsi di parassiti o residui di cibo maldigerito, sensazioni che mi hanno rimandato indietro nel tempo, epifanie che , come per troppo tempo costrette a restare serbate in qualche parte del mio cervello durante tutta la giornata, trovano la forza di sprigionarsi, nella mia ora di meditazione in movimento, come chiamo la corsa. D'improvviso l'odore delle foglie secche dei lecceti pugliesi mi ha invaso le narici riportandomi alle centinaia di cacce condotte con mio padre tra i boschi della murgia brindisina, negli inverni freddi ma secchi, in movimento nella campagna, fra uliveti o nel mezzo della macchia, cercando di non calpestare funghi come forma di reverenza a chi li avrebbe poi raccolti, gente povera ma non per questo meno predatrice, anzi forse di più ,come disse Lee Masters , di guardarsi da chi diventa ricco e si teneva i pantaloni con la corda, osservando il cielo con circospezione, ma senza essere ossessivi, molto più contenti se il cane avesse “alzato” una beccaccia, che a mio padre è sempre piaciuta la caccia a sei zampe, quella che si fa con il cane al seguito, in alternativa alla caccia di rapina fatta ai tordi all'aspetto quando si ammasuonano al tramonto, vere e proprie esecuzioni pennute di massa in cui gli animali non hanno alcuna possibilità di scampo o come pure sparare ai fringuelli, col loro volo saltellante, a balzelli, e le code lunghe con le penne bianche e grigie, i fringuelli che tutti dicevano di risparmiare in attesa del piatto forte dei tordi ma che in realtà sparavano per puro divertimento lasciandone i cadaverini dispersi nei fondi agricoli succulenti pasti per volpi o cani randagi...Tutte quelle interminabili giornate in cui mio padre vestito verde mimetico , con i suoi capelli brizzolati e il suo caratteristico ovale del cranio scoperto alla spavalda come a voler trattenere quella parte di sé di eterno Peter Pan in lambretta sulle provinciali del brindisino in preparazione di altri territori di caccia, quello al pulzelle della sua epoca, si aggirava con me al suo fianco raccontandomi di episodi di caccia vissuti da lui quando era più giovane o quando io non c'ero , come di quella volta che nel canneto del fiume Morelli aveva appena finito di liberarsi delle scorie del pranzo, ed era il pomeriggio di una domenica e vide da lontano volteggiando in punta di canne un falco pellegrino che probabilmente stava vedendo di procacciarsi qualche arvicola o rana e ancora con le mutande abbassate prese il vecchio sedici che era stato del mio nonno paterno e prima di lui del mio bisnonno e fece fuoco, così, in equilibrio instabile, e vide cadere il rapace e subito il cane , un pastore tedesco che lo accompagnava andò verso il volatile in caduta e lui, mio padre non fece in tempo a darsi una rassettata, che sentì il cane guaire e quando arrivò sul posto il falco ferito aveva artigliato il cane ad un occhio e non lo lasciava andare, così mio padre fu costretto ad ucciderlo, quel meraviglioso rapace che ora giace in una vetrina imbalsamato da un famoso tassidermista nano gay ora defunto di cui parla persino un racconto giallo di Vincenzo Cerami. O di quando fece fuori una poiana che volava ad un'altezza siderale e cadde anch'essa ferita e la tenne in vita per un po', finchè l'animale non si lasciò morire come avrebbe fatto qualsiasi detenuto contro la propria volontà abituato a vivere libero e fu in quella circostanza che mi confessò che la caccia dopo un po' aveva cominciato a disgustarlo e che simpatizzava per gli animali, in quando creature più deboli e senza scampo nella sproporzione dei mezzi di confronto e che tutte le volte che sparava a qualche tordo e cadeva ferito tentava sempre di curarlo con la penicellina perchè in realtà lui era un tipo di cacciatore che caccia perchè vuol rubare agli uccelli la libertà del volo e vuole che gli insegnino questa libertà, ma dopo un po' che ne aveva curati un bel po' e non erano sopravvissuti cominciò a capire che essi davvero gli avevano insegnato la libertà e che il volo non era che uno degli aspetti di questa libertà, concetto che ritrovò in quel verso dantesco che declina di quando in quando nel mezzo di una conversazione gettato lì in modo che sembra leggero ma che invece è frutto di esperienza diretta ed che è quel verso che fa “libertà vo cercando ch'è si cara come se chi per lei vita rifiuta”. Ed era in quelle cacce , in quelle camminate lunghe per i campi, lungo passatoi brecciosi , in mezzo ad uliveti, nelle ore antelucane a volte o a sera, all'ora della beccaccia, quando la si poteva vedere uscire dal bosco dove se ne era stata acquattata a mangiar lombrichi nelle sue parti più fangose e ombrose e la si poteva far fuori in tutta tranquillità, se avevi abbastanza cinismo e te ne fregavi della sportività (anche se francamente non ho mai capito l'abbinamento dell'aggettivo sportivo alla pratica della caccia, ma tant'è la nostra lingua come la nostra cultura vive di ossimori) , che ho imparato il valore della vita e della morte per gli esseri che non possono opporsi e mio padre in quei frangenti mi è sempre sembrato come uno di quei soldati che spregiano la guerra ma siccome devono eseguire ordini la combattono cercando di farlo nel modo più etico possibile e qui gli ossimori continuano. E di quella volta nel bosco di Carestia, il bosco della storica masseria aragonese dove io giocavo da piccolo all'ultimo giapponese con un fucile immaginario che mi ero ricavato da un ramo spezzato con una piccola forcella come terminale che immaginavo fosse una baionetta innestata emulando quella immagine romantica da qualcuno dei mitici fumetti lettura preferita della mia infanzia Supereroica, fumetti di guerra, ben disegnati e ben sceneggiati , nei quali persino un giapponese al di là della retorica del vinto poteva essere rappresentato sotto un aura romantica da combattente perdente ma con molto onore, lungo un sentiero che s'apriva fra i lecci, le querce e le macchie di cisti o di corbezzoli gialli e rossi e mirti e rosmarini , driblando funghi giganteschi dalle forme curiose e dai colori a volte sgargianti come in natura sanno fare solo gli esseri più pericolosi e proprio per questo accattivanti. E mio padre andandosene un pomeriggio invernale e il sole era ancora abbastanza alto, lungo questo sentiero che le leggende del luogo vogliono frequentato da briganti borbonici o contrabbandieri, sollevò il capo e sentì quel verso stridulo e acuto fatto da una nota prolungata molto simile a quello dell'aquila e vide quella meravigliosa creatura dalle penne castane che faceva lo spirito santo scuotendo tremolanti le ali ferma in aria sul posto come un elicottero puntando qualche roditore scampato alle numerose volpi della zona, piccole, furbe, magre e scattanti, dall'olfatto micidiale e dallo sguardo sfidante, se s'accorgono che non hai un fucile puntato contro , e colto da una titubanza, quasi con dispiacere, d'imbracciata tirò al regale rapace che era poi una poiana e poco dopo planando lentamente, ma inesorabilmente, la vide cadere al centro del bosco, caduta ferito. Dopo ore di ricerche, quasi sul punto di rinunciare, avvertì il suo caratteristico verso e , dietro ad un cespuglio, il rapace con gli occhi vivi e impauriti, e la piccola lingua penzoloni restando fermo con l'occhio fisso, non dava segno di volersi arrendere con le buone, come quel giapponese impersonato da me nelle estati dell'infanzia, nel fresco del bosco, mentre tutti erano al mare, ma mio padre togliendosi la giacca riuscì ad avvolgerlo e a portarlo con se fino alla macchina, con conseguente corredo di penicelline e sopravvivenza di qualche mese, come capita a tutte le creature che non sanno più volare e che si sentono umiliate a mangiare il cibo dalle mani della creatura malvagia che ha tolto loro la fatica del procurarselo da sé. Nell'inverno di quegli anni sessanta e mio padre si dedicava alle assicurazioni e aveva una simca mille che liquefaceva sulle strade di mezza Puglia e oltre , durante una nevicata non c'era tordo che si vedesse e le beccacce erano rimaste in Bosnia Erzegovina in quei boschi sicuri di aiduka memoria, così si mise a sparare a dei pettirossi, che con quel freddo becco cadevano come presi a schiaffi nel bianco della neve e quei piccoli esseri implumi dal coraggioso petto di piume vermiglie con quel verso come di nocche di dita ammiccanti e simpatiche cadevano a stormi sotto il piombo del sedici cosparsero di rosso il biancore della neve , finchè il mucchio non divenne un enorme pozza rossa su quella bianca stoffa cotonata che era il manto nevoso e gli sembrò l' allegorìa della bandiera giapponese, e dovette sembrargli, quell'immagine, come l'ostinazione a voler resistere per forza, palesandosi ai suoi occhi la propria personale Hiroshima che rimase impressa nella sua mente per sempre. Da quel giorno non sparò mai più ad un pettirosso, che De Andrè avrebbe definito in una sua canzone, manco a dirlo, “da combattimento”, e anche se continuò ad andare a caccia non fu più la stessa cosa , era come se gli si fosse rotto qualcosa dentro e ogni tanto, quando andavo a caccia con lui, me lo rammentava, rievocandomi quell'immagine e accompagnandola al concetto che non si può violentare così la natura e che persino la Bibbia sbaglia quando dice che tutti gli esseri viventi sono sottoposti all'uomo e che invece Budda aveva superato questa arcaica concezione dando agli animali un'anima e che se fosse stato possibile, se non avesse dovuto condurre la vita che conduceva, il lavoro stressante , le cene e le bisbocciate dopo cena, ma fosse vissuto in un clima storico e culturale diverso, sarebbe stato vegetariano come estrema forma di rispetto per tutti gli esseri viventi. Vent'anni dopo questi suoi ragionamenti “di caccia”, svolti in lunghe camminate fra sentieri di terra rossa che si aprivano in mezzo a rocce bianche affioranti in mezzo ad uliveti cresciuti anarchicamente sulle colline fra Ostuni e Casalini, davanti a qualche rudere di trullo usato come deposito di erba medica dentro uno dei quali mi misi ad amoraggiare una volta con una ragazze dell'epoca uscendovi con gli occhi di un avversario di Tyson per un allergia da fieno, quasi come la memoria di quelle conversazioni si fosse decantata nella mia mente e avesse poi germogliato a distanza, mi sono risolto di diventare vegetariano. Già, chi siamo noi esseri umani per arrogarci di avere potere di vita o di morte sugli altri esseri del creato e dopotutto non credo che abbiamo, noi intesi come umanità, quella pretesa superiorità morale che ci pone al di sopra di altre forme di vita ma anzi a voler osservare la nostra evoluzione storica forse l'uomo Neanderhaliano che giudichiamo di un ceppo evolutivamente inferiore al nostro Homo Sapiens e più vicino agli animali, si potrebbe dire sul piano morale e dell'organizzazione umana e sociale, di gran lunga superiore, perchè uccideva per bisogno e non per divertimento, umiliazione o volontà di annientamento del prossimo, come sanno milioni di ebrei, di tutsi o di russi che si opposero a Stalin , compreso quel genio incompreso ancor'oggi, il Pasolini sovietico, che risponde al nome di Trotsky.