martedì 6 settembre 2011

Come una bossa nova (Uno)


E' notte, in cuffia Radio Bossa Nova FM mi fa viaggiare tra le spiaggia brasiliane, sotto l'ombra delle palme, col viso accarezzato dalla brezza, in bocca il sapore asprigno della caipirinha, in lontananza fanciulle mulatte dai corpi sinuosi e ofidici ancheggiano lanciando sguardi in tralice che emanano riflessi come di marlyn che tentino di slamarsi da ami di pingui pescatori seduti su grandi yacht d'altura, ancestrali urubu neri si stagliano sull'orizzonte ingentilito da una nebbiolina azzurrina come dopo un'esplosione, odore di olio di cocco, posso vedere i grattacieli del litorale di una qualsiasi città brasiliana rimpicciolirsi mentre li guardo attraverso il microscopio di un bicchiere di birra Skol giallo paglierino sollevata da un uomo panciuto che sembra godersi ogni momento di questo starsene all'aria prevespertina del pomeriggio caraibico, rumori di sottofondo di mototaxi nordestini, ecco mi sembra di starmene seduto a pensare su una spiaggia nordestina, del Brasile più autentico, primitivo, atlantico e marino, mentre aquiloni solcano l'aria innalzandosi sull'oceano come caricature di aerei destinati a trasvolare l'atlantico, mentre sotto una baracca all'ombra ragazze dal somatico indefinibile , androgino, ma non per questo meno misterioso e affascinante, danzano il samba del pomeriggio su questa spiaggia dove il tempo sembra essersi fermato, dove non conta più nulla , a parte l'attesa e lo scorrere dei minuti che non terminano mai e gli sguardi che parlano standosene in silenzio e i movimenti di bacini, occhi, mani che fumano sigarette e spinelli alla buona , un sound system lancia tracce di forrò che fanno danzare tutti compresi quelli che siedono e si danno da fare a scarnificare pesci pargo appena arrostiti o polli arrostiti o arrosti misti cotti con la dovizia di una cerimonia del tè giapponese, ma con più calma , se possibile...perfetta cornice che permette e favorisce lo sviluppo di mille amori o di un amore, non importa, dell'amore, comunque, perchè l'amore non è fatto solo di corpi scolpiti, ambrati dal sole caraibico, non è solo fatto di dentature perfette, di sguardi sfuggenti, di occhi che sorridono e di anche che danzano l'hula hop del desiderio solo e semplicemente camminando, ma l'amore è anche e soprattutto atmosfera, energia che si assorbe dall'aria, nel clima, è energia combinatasi atomicamente dalla somma alchemica dei ventuno grammi di quelli di noi che non ci sono più e se ne sono liberati, per lasciarla libera vagare nell'aria, senza che nessun Dio possa mai avere l'ardire di riuscire a irregimentare, che se dovessi darle una forma, a questa energia, sarebbe quella delle facce delle ragazze che danzano il forrò sotto l'ombra di una baracca, facce indie, facce nere, facce mulatte, facce bianche teutoniche, rosse belghe, italiche venete , scure mediterranee , facce africa, facce pellerossa, facce inuit, facce nippo, facce ciaina, che tutte insieme compongono un'unica grande faccia verdeoro che è il continente brasiliano.
E' notte e fuori è buio e c'è silenzio , nella periferia ovest di Milano, dove mi sono ritirato a vivere da oltre vent'anni e cerco di stare in equilibrio, con i miei sentimenti, con le mie emozioni, con le mie ragioni, con i miei valori, ma la vita è il vento che mi colpisce in viso e in faccia, come una tramontana gelida, mentre percorro un filo d'acciaio teso fra due grattacieli e sotto il vuoto più assoluto fatto di persone che mi guardano in attesa dell'evento tragico che dia un senso alla loro esistenza, per differenza, per sopravvivenza, cinque minuti di calda consolazione perchè è toccato a un altro e non a loro, cadere. Ma è giunto il momento per me di prendere il coraggio a due mani e di andare avanti sulla corda d'acciaio tesa fra i grattacieli di questa città stato. Senza aver paura di cadere, anzi forse avendo paura di cadere, perchè la paura genera attenzione, è vigile, mette concentrazione, mentre il coraggio uccide. Più che il coraggio l'eccessivo coraggio. I giorni scorrono inesorabili, i capelli si ingrigiscono, la pinguedine mi assale con l'autunno foriero di appetiti irrefrenabili antistress, nonostante il jogging quotidiano, almeno 45 minuti. Tutti i giorni dopo il lavoro, quasi in stato di trance, appena arrivato a casa dal lavoro, indosso la tuta e qualche vecchio maglione in disuso e senza troppo senso estetico modello runner milanese new generation, inforco delle scarpe da jogging neanche tanto tecnologiche e mi scaravento in strada. Via, nell'autunno incipiente, primi di ottobre, verso le sette e mezza di sera, ed è già buio, vado verso la mia quotidiana meditazione in movimento. Esco di casa a Corsico, cielo nero lavagna, intorno palazzoni di dieci e più piani popolati ormai in prevalenza da puttane nigeriane, matrone russe pettorute modello matrioska bodybuilder, esili polacchi emo, massaggiatrici cinesi, i soliti magrebini macilenti marlboro perennemente incollata al labbro secondo i classici dettami coranici del fumo male minore rispetto all'alcohol, reduci dal recente ramadan, e pochi stanchi calabresi e napoletani che resistono senza reali alternative auspicabili, mi inoltro nei vicoli dietro casa, sotto gli sguardi costernati di fastidio che dalle finestre e dalle villette intorno , nella strada che costeggia le finestre di casa, mi monitorano durante il passaggio, mentre cani ringhiano e abbaiano dietro le inferriate diventati cloni dei proprietari e delle loro idiosincrasie per il diverso da sé, nella fattispecie il jogger che nell'incipiente serata postlavorativa come un ninja forzato, in tutta scura e scarpe ginniche , prova a battere il tempo che passa , lo scazzo divanesco dello starsene in tv come ebeti o tossici in scimmia pura a lasciare che quella scatola emanante onde elettromagnetiche pensi per te, come si permette questo strano individuo, che a quasi cinquant'anni, e non ha più l'età, di andarsene a correre a quest'ora, mentre tutti noi guardiamo il tg di Italia Uno e ci inebriamo nell'idiozia più totale dello slogan gridato che pubblicizza la medesima rete, mentre si parla volentieri delle tette di Belen, delle pseudofrocerie di Corona, e quasi mai o per niente dei morti ammazzati sul lavoro in ognidove in Italia, negli anni zero che sarebbero dovuti essere gli anni della sicurezza assoluta e della tecnologia che affranca l'uomo dalla fatica del lavoro...penso tutte queste cose mentre i cani abbaiano rabbiosi dietro le inferriate facendomi venire voglia di diventare il primo serial killer di cani a guardia di villette hinterlandiane milanesi. Prendo a sinistra e sento lo smog delle auto che mi pizzica il naso e la gola, mentre salgo e scendo dal marciapiedi, illudendomi che questo andare su e giù per i marciapiedi, schivare buche, saltare gobbe sull'asfalto semiporoso del paese , mi alleni tutti i distretti muscolari, come il primo bianco che corre come un keniano nella valle del Rift, dove decine di ragazzi neri africani, memori della corse di chilometri a piedi, per andare a scuola, con ogni tempo, hanno deciso di prendersi un riscatto sulla vita e sul mondo, continuando a fare quell'esercizio che li portava sui banchi davanti ad una lavagna raffazzonata e a gessetti mossi nervosamente da maestre dentibianchi improvvisate dell'ultim'ora ma non meno importanti e forse più pregnanti di professori liceali di un occidente evoluto ricco e povero di idee, primo bianco che corre a prescindere da un allenamento per qualsiasi gara, ma solo per la gara della vita, della sopravvivenza, la gara del mantenersi in salute e sani di mente, combattere il colesterolo e i grassi nel sangue del corpo e il colesterolo dell'anima, ancora più pericoloso. E mentre mi infilo su un viottolo sterrato che si apre in mezzo a pioppi che fanno il presentat'arm a canali irrigui limpidi che ospitano trote guizzanti, incontro quasi sempre dei tossici senza età, uno piuttosto robusto in canotta estiva, persino in inverno, e pantaloni mimetici, con uno stanco pittbull con un'espressione senza espressione, con occhi languidi e cerulei, che pare in scimmia come il proprietario, proiezione canina del proprietario, il quale mi osserva sempre caracollare con la mia teoria sonora di passi strascicati sul brecciolino del viottolo in questione, ma io nel ricambiarlo col viso capisco che è lo sguardo truce del cobra negli ultimi attimi prima che la mangusta gli dia il colpo di grazia, fragile com'è, lui e i suoi colleghi di siringa o di vena, che di quando in quando spariscono dietro i cespugli di more perennemente spogli, come i rari alberi di fichi disseminati lungo questo percorso bucolico che si apre improvvisamente e improbabilmente nel bel mezzo dei quartieroni di palazzoni di Corsico, Buccinasco & company, spogli in realtà, perchè qualsiasi bacca o frutto non fanno in tempo a crescere che nugoli di pensionati che hanno tutto il tempo per godersi la miseria della recessione galoppante, li estirpano neanche giunti a maturazione, con quell'ottica di rapina che l'italiano medio di ogni latitudine si ritrova ad avere di fronte alla cosa pubblica.
Poi di volata lungo un vialone, a destra campi di granturco d'estate o brulli d'inverno, gracchianti di cornacchie grigie in pasturazione, attraverso gli occhi delle quali faccio delle esplorazioni in zona, immaginando di trasformami in qualcuno di questi volatili che secondo Castaneda sono dei conduttori momentanei o permanenti di anime, ricognitori alati attraverso gli occhi dei quali uomini dotati di speciali capacità oniriche riescono a vedere e prevedere agguati di nemici e incombenze della vita. Qualche airone cenerino o bianco, attraversa il volo il vialone, mentre a sinistra condomini di due o tre piani immersi in giardini così curati da sembrare artificiali, stanno immobili e silenti come transformers congelati da qualche potenza aliena in attesa di attivarsi in un futuro prossimo venturo così lontano da immaginare che gli uomini se ne andranno in giro con le clave.
Dopo una curva, vedo in fondo ad un altro vialone, una grande fontana, al centro di una rotonda che regola il traffico, mentre a sinistra, lungo la siepe dei condomini verdeggianti, qualche altro jogger si dà da fare per consumare delle costose scarpe nuove fiammanti appena acquistate da qualche negozio di settore dall'altisonante nome di “Paradiso del Runner”, tipico, questo aspetto di un popolo che non sa più improvvisare, ma che tende a svolgere tutto, qualsiasi cosa, in base a canoni di specializzazione, in ossequio alla cultura della specializzazione, la cultura delle varie Bocconi e Luiss, dove ti insegnano a pensare solo con un lato del cervello, quello che serve a chi detiene le leve del potere economico e finanziario del pianeta. Oltre la fontana attraverso un parco dove spesso trovo uomini o donne di mezz'età, che accompagnano i cani a pisciare, così assomiglianti che qualche volta mi viene fatto di pensare che siano i cani a portare loro a pisciare, e a volte mi fermo davanti a delle panchine di pietra a fare degli esercizi, per gli addominali o piegamenti sulle braccia, ma senza il fanatismo “marine” del fissato per la cultura fisica, ma più che altro per accertarmi dell'esistenza in vita delle altre parti del corpo che non siano le gambe motore giocoforza del corridore. Qualche volta le panchine del parco sono affollate di sbarbati dal viso albino e sbattuto che mi guardano circospetti e impauriti, mentre si rollano le loro canne di noia postprandiale o serale e mi guardano con odio, sfrecciare sulle passatoie di mattoni che serpeggiano in mezzo all'erba morta o tenuta in vita a flebo di pesticidi, mi odiano a prescindere, diverso dai diversi del neoconformismo tetracannabinolico, della serie se non fumi erba o hashish non sei della crew( almeno fosse vero hashish, è solo sterco incartaopecorito vendutogli da marocchini affabulanti meraviglie tossicologiche da inesistenti “Mille e una notte”). Svolto a destra e taglio per un pezzo d'erba e m'infilo in un viottolo a fianco di un nuovo compresso di palazzoni, sul mio lato sinistro un canale irriguo di acqua limpida e davanti a me due panchine quasi sempre vuote, lignee panchine che stanno all'ombra di due immense e imponenti querce che mi commuovono e che mi danno la sensazione di essere degli eroi arborei che sopravvivono come vecchi e immortali guerriglieri all'avanzata del cemento e dei quartieri di calcestruzzo nati da plastici di architetti spastici brillanti solo a rimpinguare i propri conti in banca e a sedersi ben abbronzati di lampada in studi televisivi a fare le star, tragicomico destino di chi ha progettato carceri dorate cinte da giardinetti finti, scale finte, cemento finto e balconi in anticorodal spacciato per glamouroso. Passo attraverso un ponticello di legno e faccio un altro pezzo di viottolo brecciato, in mezzo a due canali irrigui sui lati, dove talvolta vecchi “sciuri” in pensione se ne stanno in bermuda stinte a pescare con nipoti entusiasti di questo piccolo Quark in scala ridotta che darà loro l'illusione di sapere cos'è un pesce, idea che quel assai poco guizzante surrogato di trota che di quando in quando vedo dimenarsi alla moviola appena preso all'amo non potrà mai dare. Privo com'è, oramai della violenza tipica di tutti gli esseri liberi che rinuncerebbero alla vita pur di non finire in una casseruola, abituato a quei piccoli corsi d'acqua artificiali il cui corso è deciso dall'uomo, pesci detenuti, che hanno perso ogni orgoglio protervo di anelare alla libertà. Sulla sinistra mentre faccio un pezzo di asfalto, mi appare il cimitero di Buccinasco, e mentre osservo quei lumini o quelle tombe con croci stinte o lignee e qualche parente con dei fiori in mano che chiude la macchina con un comando a distanza ed entra nel camposanto come sull'Enterprise di Star Trek e mi faccio la croce, così, come un antico gesto apotropaico in omaggio al paterno non ci credo ma ci penso, ma più che altro per ideale ossequio ai miei morti sparsi per i vari cimiteri appulosalentini, per tutte quelle volte che non ci vado, tutte le volte che passo da quelle parti, nutrendomi dei vivi e trascurando i morti e le loro tombe, che, si creda o non si creda, sono templi del ricordo, dove davanti ad una foto e ad un mucchietto d'ossa , uno finisce per parlare a delle anime o entità che non esisteranno più. Questo uccide gli uomini, non l'aids, la sifilide, la peste, il cancro, l'uomo lo uccide l'idea che alcune cose e , soprattutto, alcune persone, non tornino più e uno le tiene vive nei ricordi finchè un alzahimer o la vecchiaia incombente non stempera e sporca persino quelli. Epperò illuderci di essere individui superiori a qualsiasi altra specie del creato, ci lascia mostrare una hybris fuori luogo che ci autorizza a travalicare ogni limite, sia nel buon senso che nelle atrocità.
Adesso entro sotto un arco artificiale che annuncia che sto immergendomi in un percorso vita, non prima , però di essere passato sotto un ponte della tangenziale ovest, mentre milioni di macchine ci passano su con una violenza inaudita, meccanica, elettronica e dromologica, milioni di persone che vanno o tornano dal lavoro, tutti soli, uno per macchina, quintessenza dell'individualismo solipsista imperante pietra angolare del consumo di merci. Passo all'interno di un complesso di casette di campagna, giusto davanti ad una vecchia cascina, dove una chiesetta, la chiesetta della Madonna bambina di Buccinasco , sempre chiusa solitaria e buia all'interno , mi accoglie con la sua presenza imperitura di un edificio bastante a se stesso persino nell'incombenza di sgretolarsi. Due madonnine a bordo strada mi impongono un nuovo segno della croce, questa volta ad invocazione di numi, se esistono o meno si vedrà, che mi aiutino a fare la salita che mi farà attraversare il ponte che ho già attraversato sotto il fondo stradale. E vedo già, a metà salita l'enorme interminabile teoria di macchine che insieme producono quel caratteristico rumore di traffico, di fervore meccanico, quasi un urlo da stadio, più uniforme e monotono, della tangenziale ovest, mentre sulla mia sinistra una grande risaia mostra nello specchio dell'acqua che la inonda nuvole grigie proteiformi che mostrano facce di Padre Pio, Cristi in croce , teste di Che Guevara col basco che fumano un sigaro, dirigibili tedeschi, Corto Maltese sulla plancia di un veliero o Tex Willer a cavallo in cerca di un pezzo di deserto per un bivacco ritemprante. A centro ponte vedo milioni di macchine passarmi sotto e tutti mi guardano sfrecciare sul ponte con la mia andatura stanca e caracollante e pensano con invidia malcelata allo sfigato che sono, incapaci solo di lontanamente concepire che in quel momento sono l'uomo più felice della terra. In quel momento i miei sensi al massimo dello sforzo sono anestetizzati all'ennesima potenza, potrebbero spararmi o infilzarmi con una freccia di balestra che non potrebbero fermarmi, le endorfine al massimo, come sotto l'effetto di mille dosi di morfina, ed ho tutto dentro come qualsiasi altro essere umano, sto solo scoprendo le mie potenzialità...che questo è in fondo che si richiede all'uomo, questo deve essere il suo scopo precipuo in questa vita, portare al massimo livello la sua ricerca di conoscenza sul mondo e su se stesso nel mondo, potrei abbracciare tutti gli esseri viventi sentendomi armonico con loro proprio perchè non sembra importarmene per nulla di loro proprio perchè me ne importa e c'è buddismo in questo, c'è taoismo, e ce l'abbiamo tutti dentro solo che non sappiamo come si chiama, non sappiamo riconoscerli, potremmo chiamarlo in onore della cultura cristiana, lo spirito santo. Non c'è bisogno di credere, basta staccare il cervello dalle incombenze materiali del vivere, anzi dalla dittatura della produzione di beni e servizi per altri, anche solo per una quarantina di minuti, tutti i giorni, chi con la corsa, chi con lo yoga, cucinando o bevendo una ceres o un tè verde al bergamotto, lontani da quell' eleusino oracolo tecnologico della tv, che ecco che tutti noi siamo in grado di riconoscere quel momento zen che dà un senso compiuto alla nostra vita. In discesa a rotta di collo, in mezzo a capannoni industriali, mentre chiudono e gli ultimi dipendenti fumano la sigaretta della staffa prima di mettersi in macchina e percorrere la tangenziale. La stazione di servizio sulla destra, mentre un bel po' di impiegati dopolavoristi si stanno lavando con dovizia l'auto, con una pompa a mano che spruzza acqua ad una velocità impressionante, mi lascia pensare che lo stiano facendo per rilassarsi e per far godere la loro utilitaria, quasi la personificassero e infatti qualcuno ci parla, l'accarezza, la coccola. Attraverso due rotonde e mi immetto su una pista ciclabile rossastra, in mezzo a capannoni industriali che emanano odori forti di vernici e lacche che mi fanno venire in mente ragazzi di strada ai semafori di Fortaleza sporti al finestrino del taxi che chiedono spiccioli strafatti di colla, bruni, ambrati ma tragicomicamente profumati dalle lacche inalate a profluvie. Al termine della ciclabile svolto a sinistra tagliando una rotonda, una collega di lavoro rumena in bicicletta mi riconosce e mi guarda con un improvviso interesse che io immagino persino sessuale , abituata a percepirmi e vedermi come un collega di lavoro piuttosto intellettuale e stolido, potere disinibente dell'atletismo mostrato in strada.
Percorro un tratto di strada verso l'involontariamente tautologico Parco della Resistenza, a destra ragazzi fumano uscendo da una palestra di bodybuilding dove a parte rimirarsi allo specchio non hanno fatto molto al contrario di quel che pensano vedendosi grossi. Per correre ci vogliono le palle, non basta fare i pugili, i calciatori, i giocatori di rugby, i karateka, solo la corsa forgia il carattere. E bisogna correre immaginando di fare il doppio di strada di quella che si sa di dover percorrere. Lungo l'inferriata del Parco della Resistenza, sfreccio con la mia maglietta con su scritto “Partigiani Sempre” e un idiota italico medio mi lancia un “meno male che Silvio c'è”, cantato e un “Italia uno” urlato, in questo paese che ha perso il senso del pudore e che non si vergogna più di niente , nemmeno della propria ignoranza. Corro ancora lungo il periplo del parco che fra qualche anno si chiamerà Parco del Grande Fratello , c'è da giurarci, ma niente mi distrae dal completare il mio allenamento, nulla può distogliermi dal mio bipede viaggio quotidiano nel viaggio della vita. Ancora un allungo e infilandomi in dei vicoli, in men che non si dica, sotto gli occhi di esterrefatti passanti, chi fumando, chi flirtando appoggiati a un auto, percorro gli ultimi cento metri, che faccio alla velocità del velocista giamaicano della mia immaginazione. Una volta fermo continuo a camminare. Trenta metri e sono davanti a casa , dove mi fermo davanti ad un palo che segnale divieto di sosta a fare stretching, indispensabile corredo al termine della fatica. Osservo il palazzo di fronte al mio, un palazzone vecchio e crepato, dove al quinto piano alcune finestre sono aperte estate e inverno e nere nigeriane e russe discinte si alternano a lavare piatti e cucinare, lanciando di quando in quando sguardi al mio indirizzo e sorrisi sornioni, in reggiseno alcune, con magliettine che coprono tette free lance, altre. Io rispondo al sorriso e faccio per rientrare nel portone del mio condominio. Nella mente la gradevole immagine di questa gente che sa ancora sorridere e che se ne frega della disperazione, e che anzi la scaccia dalla propria vita in modo ammirabile, mentre lava i piatti nel proprio momento zen della giornata, prima di andare a battere o a fare lavori pesanti e malpagati in pizzerie di italiani che non sanno più apparecchiare un tavolo , o in fabbriche che gli italiani non sano più tenere pulite o prima di andare a mandare i soldi con money transfer in lontani paesi che sembrano sputi su google maps, ma che conservano la memoria genetica di un'umanità che noi italiani abbiamo perso per strada perchè ci siamo creduti americani. Incontro nelle scale un paio di inquilini del mio condominio. Facce tristi e spente di chi ha casa, box auto e abbonamento a San Siro ma non sa più sorridere alle foglie secche.

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