martedì 20 settembre 2011

Come una bossa nova (due)


Da tempo superato quel narcisismo un po' infantile non che snob ad libitum dello scrittore che non legge altri scrittori, ho preso a noleggiare libri dalla biblioteca in genere la mattina prima di andare al lavoro. Un paio in genere e me ne infilo uno che più tardi terrà compagnia ad una copia ben piegata di Repubblica nel tascone laterale della divisa prima di andare al lavoro, in queste mattine umide di ottobre, quando tutti noi coscritti del lavoro e meno male, dovrei dire, visti i tempi che corrono, ci svegliamo con le ossa rotte e i muscoli rattrappiti e ci scaraventiamo in strada mezzi addormentati con gli occhiali da sole come minatori usciti dalle miniere dopo quaranta giorni di prigionia, non più abituati alla luce del sole. Poi in macchina lungo il naviglio, il riscaldamento acceso a palla, nel traffico mortifero delle nove di mattina, con radiodeejay a gracchiare da una vecchia radio-stereo e i vari personaggi del mondo intellettuale postmoderno che rispondono alla improbabile e tautologica definizione di deejay pronti lì a pontificare ed a diffondere a livello elettromagnetico il loro verbo ormai molto più ascoltato di quello dei politici e ci vuole poco, visti i tempi. Per non parlare degli intellettuali, grandi assenti dell'epoca, tutti venduti, persi nell'utilizzare le loro abilità per sopravvivere vendendosi al miglior offerente pur di non doversi ridurre a lavorare, manualmente o facendo altro, attività nobili che sembrerebbe quasi arrecar loro un'onta, e che insegnerebbero invece il valore del denaro e della fatica. Ma i novelli prostituti intellettuali, vere puttane postmoderne del pensiero, passano le loro giornate scrivendo libri insulsi per stampare i quali si arrecano danni ambientali incalcolabili all'Amazzonia, frequentano salotti buoni, girano negli studi televisivi. Ma dove sono finiti i Tolstoj che visitavano detenuti in confino, dove sono finiti i Dostojevskij che si rovinavano a giocare alla roulette, o che stupravano minorenni procurandosi un infinito senso di colpa carburante inestimabile per nuove creazioni del pensiero, dove sono finiti i Celine che visitano l'Unione Sovietica e dicono la loro imperturbabili e anarchicamente indipendenti, dove sono finiti i Trotsky che avevano una visione del mondo completa ed enciclopedica... e i Pasolini, gli Sciascia, i Calvino, ammesso che anche loro fossero immuni da piaggerie o accondiscendenze verso datori di lavoro editori e comunque imprenditori, capitalisti che devono far quadrare i conti? Gli uomini di pensiero oggi sono dispersi nelle segrete del pianeta, nelle fabbriche, in oscuri uffici impiegatizi poco numerosi o male illuminati, in Centri Commerciali, in officine meccaniche, in mezzo alle prostitute che vendono il corpo per pochi spiccioli o per tanti, non importa, fra oscuri impiegati di banca o operatori di call center. Sono sicuro che un marocchino che ha appena fatto il pieno ad un cliente di una pompa di benzina, ha pensato qualcosa di geniale, ha partorito nei suoi pensieri un verso immortale , ha avuto un'idea brillante e sta pensando che diminuire il prezzo della benzina aumenta l'inquinamento ambientale e che un cammello che si nutre sporadicamente di datteri è una nave del deserto e resiste a chilometri e chilometri sotto il sole come nessun mezzo meccanico e che nelle notti artiche del deserto guardando la luna e le stelle e congiungendone con lo sguardo i punti che brillano si possono vedere figure umane e facce e profili e che la volpe del deserto avverte un topo a dieci chilometri e che se l'uomo imparasse a sviluppare questo potere potremmo fare a meno dei radar e usare quelle risorse per produrre vaccini contro aids ed epatite c, o ebola o si potrebbe finalmente lottare seriamente contro il tumore senza dover chiedere soldi a sponsor più o meno occulti che li generano. Ma naturalmente nessuno verrà mai a sapere che ci sono uomini che pensano cose geniali, perchè il genio lo stabilisce il mercato, come pure chi è intellettuale e chi no, come pure se un quadro è un quadro oppure due pennellate buttate alla rinfusa su una tela qualsiasi.
Accelero nel traffico e supero un paio di semafori, dall'altra parte del naviglio qualche coraggioso masochista della corsa si sta allenando sotto un sole come filtrato dal velo di una sposa over sessantacinque e io do un'occhiata ai titoli de”La Repubblica” poggiata sul sedile accanto...e mentre per un momento osservo il giornale ancora compatto e intonso mi vengono in mente tanti ricordi...
Repubblica entrava , assieme all'Unità, da sempre a casa mia. Per cui per me leggere il giornale era come per un brasiliano fare sesso: fisiologico. Una delle cose che fa durante il giorno, senza distinguere performances, tempi, durate o altre amenità statistiche, la scienza più noiosa della terra i cui interpreti c'è da giurarci sono tipi che userebbero il goniometro prima di copulare, una delle tante cose o poche cose o niente cose, o fare nulla, aspetto che noi occidentali occipitali senza soluzione di continuità dovremmo ammirare e apprendere, presi come siamo ad ucciderci seppellendoci nella merce coperta inutile che ci soffocherà e ammazzerà la nostra creatività. Leggere per me era naturale, come respirare. Respiravo notizie, informazioni ma soprattutto parole che , dopo un po' che mi forgiai nell'abitudine a leggere, provai ad immaginare montate nella pagina in modo diverso, in una speciale sequenza che oltre al significato avrebbero “suonato” bene, come un ensemble ben assortita che trasmette emozione, sdegno , provocazione, visoni del mondo. E poi mi portavo con me durante il giorno queste parole che mi tenevano compagnia e che in pochi attimi davano un senso a tutto ciò che osservavo, dapprima emulando , ma poi, dopo un po' , elaborando. La copia gracchiante de La Repubblica, restava per casa tutto il giorno, emanando quell'odore inebriante di petrolio e di inchiostro, con quel formato a portata di mano, a portata di lettura, che puoi domare con tranquillità anche in una giornata di tramontana , mentre sei seduto a aspettare l'autobus e c'è un sole lieve e capolinante, in mezzo a nuvole solide come icebergs naviganti nel cielo oceanico aeriforme. E in varie fasi della giornata tutti noi in famiglia la leggevamo, a volte scorporandone le pagine e provandone fastidio per la disscrazione dell'intonsatura del formato , fino a quando l'atto stesso del disfare non schiudeva le porte per l'accettazione che un'idea una volta letta cambia cittadinanza e forma e bellezza o comicità e persino drammaticità, se è vero come è vero che la risata è un pianto rovesciato e poco a poco quella pagina sacra che trasmetteva pensiero non si trasformava nell'idea stessa di cui la cultura deve essere costituita e cioè di qualcosa che devi usare una volta che ne hai capito il messaggio e ti sei accorto che ti ha insegnato a non farti usare da lei. Ecco che cosa significava per tutti noi in famiglia una copia de La Repubblica in casa, una volta che la disfacevamo e ognuno di noi se ne portava in pezzo chi sul tavolo della cucina, chi sul trono postprandiale , chi in giro mentre era in fila in posta in attesa di pagare una bolletta, chi se ne stava ancora un po' a letto senza incombenze immediate. E ognuno di noi, al termine si scambiava quelle pagine e insieme ad esse pareri. Cose così, semplici, che in qualunque famiglia normale di un paese normale dovrebbero avvenire. E invece ero e sono sempre stato uno dei pochi a spendere pochi spiccioli per un giornale, proprio perchè amo la lettura , che mi dà il tempo di elaborare al contrario della televisione, con i suoi tempi i suoi palinsesti le cordate i presenzialismi e persino le labbra e gli zigomi rifatti, per cui alla fine in mezzo alla sarabanda di informazioni di mortammazzati, sgozzati, stupri e violenze inenarrabili uno alla fine comincia a concentrarsi su quelle labbra , su quegli zigomi e poi sul decoltè e comincia a distrarsi, così, per una normale difesa psicologica che ad un certo punto si impossessa di te come per i marines farsi le canne in Vietnam.
Tutte le mattine entro in azienda con la divisa coperta appena da un gilet imbottito dover ripongo i miei occhiali da sole necessario orpello da vampiro involontario e dopo aver strisciato il badge nell'apposita macchinetta entro negli uffici, con una copia de La Repubblica piegata in quattro e infilata nel tascone dei pantaloni della mia divisa con la scritta ben in vista come una bandiera, come una spilla dell'armata rossa rubata ad un generale russo quando era ancora in servizio, come la maglietta di un fan che è stato al concerto del suo cantante preferito, e dopo un po' faccio il mio ingresso in mensa per bere uno di quegli insulsi caffè , osservato da tutti con quel misto di apatia e noia e fastidio, osservato con sospetto, come qualcuno di cui diffidare, perchè sa usare le parole e questo lo mette a capo di una sorta di congrega immaginaria di complottardi che magari riusciranno a farsi dare le ferie quando vogliono loro, farsi dare un aumento, tenere a distanza i dirigenti o essi stessi, temendo di non essere all'altezza. Spesso entrando in azienda col giornale nel tascone mi sono sentito come un palestinese in avvicinamento ad un check point israeliano, come una potenziale minaccia , come qualcuno di cui non fidarsi. E ci chiediamo perchè nel nostro paese abbia successo uno che raccomanda di non leggere i giornali che non sapeva che il padre dei fratelli Cervi fosse morto e che inneggia a Romolo e Remolo a cui abitualmente qualche ben pagato intellettuale di cui ho già detto fa da gost writer?
E' alla lettura invece che devo se ho imparato a diffidare delle parole ed il significato di frasi come “quando lo stato comincia a farsi chiamare Patria si prepara alla guerra” ed è grazie alla lettura dei giornali se sono diventato abile nello smascherare il linguaggio criptato della politica, di chi ti veste una speculazione edilizia con un bel “valorizzazione del territorio” o di chi ti vende le Centrali Nucleari con tutto il loro potenziale di morte ad orologeria come “avamposto del progresso senza il quale non si potranno fare i conti col futuro”.
Tutte le mattine l'edicolante da cui compro la Repubblica mi guarda male, perchè lui odia gli stranieri che ritiene responsabili di tutti i suoi guai personali comprese le corna che s'è beccato dalla moglie colta in flagrante con un senegalese parecchio prestante e pensa che io inquanto lettore di
“quel giornale” sono automaticamente uno spaccafrontiere che accoglierebbe chiunque varcasse il confine vestito di stracci fingendosi profugo in realtà infiltrato “comunista”, che ci sta bene un po' dovunque, così come “finocchio” o meglio ancora ” ebreo”, inaugurando quello che chiamerò “il paradosso dell'edicolante razzista” e cioè di colui che vende e diffonde le stesse idee che alla fine lo affonderanno, se è vero come è vero, che i giornali più venduti hanno delle opinioni che mettono in dubbio le certezze del darwiniano sociale medio. “Il paradosso dell'edicolante razzista” è alla base della nostra cosiddetta civiltà: operai fabbricano armi che uccideranno operai di altri paesi, lavorano a salari più bassi facendo licenziare operai di altri paesi , giornalisti scrivono articoli a favore di governi che pretendono di abolire i sindacati dei giornalisti, scrittori scrivono romanzi sulla base di idee degli editori, politici di sinistra dicono cose di destra per prendere voti, politici di destra ne dicono ancora più di destra per prenderne di più di quelli di sinistra che dicono cose di destra, e via dicendo, un po' come la pensava il vecchio Lenin quando diceva che il capitalismo finirà per vendere la stessa corda alla quale sarà impiccato. Milioni di persone, per egoismo, opportunismo, persino per paura o inedia, forniscono i propri servizi ai produttori di cappi ai quali resteranno impiccati e se anche non dovesse accadere per me non sono altro che dei traditori della razza umana, dovrebbero dimettersi ,oltre che dalle attività che svolgono , persino dal genere umano. Pensiero radicale, miglior pensiero, base di partenza indispensabile per cercare il giusto compromesso ed arrivare ad un punto di equilibrio accettabile per la maggior parte delle persone. Mi hanno sempre definito un estremista, un ultrà, un mullah della sinistra pauperista, un nostalgico del socialismo realizzato, in nome di una democrazia che si è dimostrata più utopistica di qualsiasi ideologia dal momento che non ha affatto diminuito le ingiustizie sociali, ma anzi, in molti casi le ha acuite, illudendo le masse con il panem et circenses di Beautiful , Mulino Bianco e la Domenica Sportiva.




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